E’ la strategia della disperazione e del nichilismo terrorista quella che ha provocato la morte di almeno 69 persone e il ferimento di altre cento a Quetta, capoluogo della turbolenta provincia del Belucistan pachistano. Nella mattinata di oggi (ieri, ndr), nell’ospedale civico della città è stato trasportato per l’autopsia il corpo senza vita di uno dei più rinomati avvocati dell’area, Bilal Anwar Kasi, presidente dell’associazione degli avvocati del Belucistan, ucciso a sangue freddo da alcuni uomini in motocicletta mentre si recava al lavoro. La notizia si è presto diffusa, e pian piano una folla di circa cento persone, perlopiù avvocati e giornalisti, ha raggiunto l’ospedale per verificare le condizioni di Bilal Anwar Kasi e protestare — come spesso avviene — contro il governo centrale, ritenuto incapace di garantire l’incolumità dei cittadini.
Secondo le prime ricostruzioni, è allora che, proprio di fronte al cancello di entrata del padiglione Emergenze, un attentatore suicida si è fatto saltare in aria. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio. Comunque gravissimo.
Si tratta dell’attentato più sanguinoso registrato in Pakistan dallo scorso marzo, quando nel giorno di Pasqua venne colpito il parco giochi di Gulshan-e-Iqbal a Lahore, capoluogo della provincia del Punjab e roccaforte del partito Pml-N (Pakistan Muslim League-Nawaz) del primo ministro Nawaz Sharif. L’attentato di Pasqua, che provocò almeno 70 morti, venne rivendicato dal Jamat-ul-Ahrar, un gruppo fuoriuscito nell’estate del 2014 dalla galassia dei Talebani pachistani. Secondo la rivendicazione fatta pervenire ai media dal portavoce del gruppo, anche dietro la strage odierna di Quetta ci sarebbe la mano del Jamat-ul-Ahrar.
Il gruppo nasce nell’ambito del processo di frammentazione dei Talebani pachistani.
Omar Khalid Khorasani, il leader del gruppo che ha rivendicato l’attentato di Quetta, ha ricoperto ruoli di primo piano all’interno dei Talebani pachistani, tessendo alleanze e sperando di assumere la guida del gruppo. Quando i Talebani sono sembrati accogliere le richieste del governo di Islamabad sui colloqui di pace, Khorasani ha contestato la decisione, accusandoli di compromessi eccessivi e formando poi un gruppo autonomo, il Jamat-ul-Ahrar appunto, composto da alcuni pezzi grossi del Tehreek-e-Taliban e da una schiera di jihadisti giovanissimi. Dal momento dello strappo, i rapporti tra il gruppo scissionista e la casa-madre sono equivoci. Qualcuno dice che nel corso del tempo ci sia stato un progressivo riavvicinamento, altri invece che il Jamat-ul-Ahrar abbia deciso di riconoscere l’autorità del califfo Al-Baghdadi, gravitando nell’orbita dei gruppi affiliati allo stato islamico e ripudiando i Talebani pachistani, vicini ad al-Qaeda, l’organizzazione terroristica antagonista del califfo.
Nelle ore successive all’attentato di Quetta, si è diffusa la notizia che fosse stato rivendicato proprio dalla branca locale dello stato islamico, la cosiddetta provincia (wilayat) del Khorasan, un’area che storicamente include il territorio dell’attuale Afghanistan, le zone orientali dell’Iran, oltre a porzioni significative di Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan, ma che per il califfo arriva fino al Myanmar, includendo anche il Pakistan.



A giudicare dagli elementi disponibili, l’ipotesi più verosimile è che dietro la strage all’ospedale di Quetta ci sia il gruppo Jamat-ul-Ahrar, già responsabile di molti attentati contro obiettivi civili e militari.
All’inizio dello scorso marzo, per esempio, nei pressi di Peshawar è stata colpita una corte di giustizia in risposta alla condanna a morte di Mumtaz Qadri, l’uomo che nel 2011 ha ucciso l’ex governatore del Punjab, Salman Taseer, colpevole di aver proposto una riforma della legge sulla blasfemia. L’attacco di oggi a Quetta colpisce ancora una volta un obiettivo civile, e in particolare i magistrati, una componente della società civile che subisce minacce, intimidazioni, abusi. Da molti fronti. E soprattutto nel Belucistan.
La provincia è una delle più turbolente del “paese dei puri”. Oltre alla presenza di diversi gruppi islamisti radicali, alcuni dei quali fanno ricorso alla lotta armata, il Belucistan è afflitto da anni da un conflitto domestico che, pur lontano dai radar dei media internazionali, miete centinaia di vittime ogni anno. Da una parte il governo centrale, dall’altra i gruppi separatisti che rivendicano maggiore autonomia e una più equa distribuzione delle ingenti risorse minerarie presenti nell’area, una delle più ricche del paese sotto questo aspetto. Islamabad in questi anni non ha concesso niente, sostengono gli attivisti beluci, e anziché riconoscere la presenza di un problema di scarsa rappresentanza politica ed economica ha soltanto inasprito le misure di sicurezza contro quelli che vengono considerati “separatisti” e “terroristi”.
Nelle mire dei reparti speciali dell’esercito pachistano sono finiti in tanti, compresi gli attivisti pacifici. Nella partita tra Islamabad e Quetta gli avvocati giocano un ruolo centrale: spesso sono loro a raccogliere le denunce degli attivisti, rivendicando trasparenza e il rispetto dello Stato di diritto. Alcuni avvocati in passato hanno esplicitamente accusato i servizi segreti militari di compiere operazioni al di fuori di ogni quadro normativo. C’è chi ha parlato di veri e propri squadroni della morte. Molti avvocati sono finiti in carcere. Altri sono stati uccisi per strada. Come accaduto a Bilal Anwar Kasi, il presidente dell’Associazione degli avvocati del Belucistan. Eppure non tutto è perduto, neanche in Pakistan. Tra coloro che sono tornati dalla Gmg a Cracovia molti giovani cattolici pakistani hanno espresso il desiderio di spendere la loro vita per riscattare il paese dalla violenza fondamentalista. I cattolici pakistani sono pochi ma costituiscono per quel paese un costante giudizio. Tra i pochi che sovrastino le grida del nulla e del terrore.

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