Mercoledì scorso l’High Negotiation Committee, la coalizione delle opposizioni siriane appoggiata dall’Arabia Saudita, ha presentato il proprio piano di pace per la Siria. Esso sta alla base delle trattative tra Stati Uniti e Russia. L’HNC ha accettato “cautamente” il piano Lavrov-Kerry solamente perché non viene contraddetto il loro. Tuttavia, il coordinatore HNC, Riyad Hijab, ha detto chiaramente che il suo gruppo respingerà ogni accordo Usa-Russia sulla Siria che si differenzia sui principali punti sollevati nella loro proposta. Il documento “Executive framework for a political solution” prevede poteri speciali per un certo periodo, ovvero la possibilità di fare leggi per decreto anziché portarle in parlamento per il voto: due anni è il tempo a disposizione perché le forze sedicenti “rivoluzionarie” possano prendere possesso dell’esercito, dell’economia, di tutto l’apparato statale e promulgare una costituzione ex-novo, senza il preventivo consenso delle urne. 



Non ci vuole molta fantasia per capire che una siffatta agenda mira ad apportare cambiamenti irreversibili. Tutti i punti del piano sono palesemente connessi e declinano solo l’autoritarismo: una sparuta cerchia ristretta di uomini dagli interessi egoistici si trasformerà in “riformatori” che faranno nomine, rimuoveranno incarichi, metteranno i loro uomini nei posti chiave, naturalmente guidati dai loro referenti esterni. 



Non tutti i lettori sapranno che in realtà una buona riforma costituzionale era già stata varata il 26 febbraio 2012. A differenza di quella concepita dall’HNC, il metodo di approvazione scelto da Assad fu l’approvazione popolare tramite referendum. La non rieleggibilità del presidente per più di due mandati e la rimozione del cinquantenario monopolio del partito Baath (art. 8), aprivano definitivamente al multipartitismo. In altre parole, erano praticamente state soddisfatte tutte le richieste dell’opposizione.

Il provvedimento di modifica della Carta era stato preceduto da un’amnistia generale e da tutte le riforme legislative richieste dall’opposizione: questi passi erano un’ottima base di partenza per la definitiva cessazione del conflitto. Poteva iniziare finalmente un nuovo capitolo per la storia del paese, all’insegna di una vera democrazia. Ma la risposta dell’occidente fu di segno negativo. Addirittura il giorno dopo l’approvazione della riforma costituzionale, l’Europa inasprì ulteriormente le sanzioni giustificando la sua decisione con quello che è ormai diventato lo slogan che tutti conosciamo: “il regime deve fermare la repressione contro i civili“. E dopo pochi giorni una nave carica di armi che aveva come destinazione la Siria, fu bloccata in Libia.



Le prime elezioni multipartitiche della storia siriana si tennero dopo soli due mesi, il 7 maggio 2012. La Chiesa siriana appoggiò le consultazioni; i vescovi chiesero in maniera accorata la partecipazione di tutti i cittadini ed ai rivoluzionari domandarono un gesto di buona volontà. Per tutta risposta l’opposizione boicottò le elezioni e lanciò un’ondata di sanguinosi attentati in tutto il paese accompagnati da rapimenti, uccisioni arbitrarie di cittadini e di candidati. 

La violenza non risparmiò neanche gli osservatori dell’Onu mandati a vigilare sulla regolarità del voto: anch’essi furono presi di mira, accusati di essere “falsi testimoni”. Tuttavia, nonostante la violenza, le elezioni avvennero ugualmente: il livello di partecipazione si rivelò inaspettatamente alto (57,41% di affluenza) così pure il sostegno al governo (il 60% dei cittadini votò di nuovo in massa al partito Baath).

Paradossalmente, i regnanti sauditi e qatarioti che non hanno mai concesso al loro popolo una costituzione così liberale come quella siriana del 2012, sono i promotori del piano di pace che dovrà portare democrazia e sviluppo in Siria. Se però approfondiamo ulteriormente il piano di pace dell’HNC, ci accorgiamo che il documento alla base delle trattative tra Russia e gli Stati Uniti, pur se contraddistinto dal blando linguaggio della “democrazia” e della “difesa dei diritti umani”, è più simile alla richiesta di una resa incondizionata che ad un progetto di transizione per la riconciliazione del paese. Se sarà approvato dalla parte antagonista così com’è, aprirà le porte ad uno stato settario, suddiviso tra le forze rivoluzionarie “vincitrici” detentrici di una integrità morale “a prescindere” e quelle perdenti “macchiate del sangue degli innocenti”: i presunti appartenenti a queste ultime categorie, compresi militari, operai o impiegati governativi se risulteranno compromessi con il regime, potranno essere privati del loro lavoro e dovranno essere rimossi dai loro incarichi e giudicati da varie “giunte” all’uopo istituite. 

In definitiva il documento, benché prometta grandi trasformazioni nazionali, appare tutto concentrato sulla pianificazione delle lotte per il potere e dalla svendita del paese agli stranieri. 

Chi ha concepito il piano ha voluto dire la parola “fine” alla laicità di un paese la cui peculiarità è la diversità di religioni e gruppi etnici ed il cui punto di forza è stato per anni l’ospitalità e la difesa delle minoranze.  A riprova di quanto detto, nel punto 9 si afferma che siccome la maggior parte dei siriani è araba e seguace dell’islam, la cultura araba islamica deve essere “la fonte fertile per la produzione intellettuale e le relazioni sociali tra tutti i siriani delle diverse etnie e credenze religiose”. In altri punti si chiarisce in che modo le nuove regole che si imporranno saranno su base settaria: la rappresentatività di ogni gruppo sociale o religioso, sarà stabilità in base alla consistenza numerica nazionale. 

Questa interpretazione trova conferma nella lettura attenta di tutte le 25 pagine del piano e nell’insistenza, durante tutto l’arco delle tre fasi di transizione descritte, della distinzione tra “forze rivoluzionarie” e “regime”.  

L’idea di fare almeno un referendum per saggiare la reale volontà popolare prima di auto-eleggersi “come legittimi rappresentanti del popolo siriano” e svendere il paese, neanche ha sfiorato la mente di questi paladini della “democrazia” che si atteggiano come padri costituenti del New Deal siriano. A meno che non sia proprio questo quello che si vuole ottenere, va da sé che un’agenda fatta in questo modo provocherà nel paese una conflittualità permanente.

Se l’accordo di cessate il fuoco di 12 giorni che va in vigore oggi ad Aleppo avrà come traguardo la realizzazione del piano senza emendarlo da cima a fondo, sarà come dire ai 400mila morti nella guerra siriana “abbiamo scherzato”.