La riunione tenutasi a Grozny alla fine di agosto, di cui ha parlato Renato Farina in un recente articolo sul sussidiario, meritava maggiore attenzione dai media.

La capitale cecena ha visto riunite per un paio di giorni quasi 200 personalità di spicco del mondo sunnita, provenienti da Egitto, Siria, Libano, Giordania, Turchia, India, Paesi africani, Russia e anche Europa. L’incontro aveva lo scopo di definire in modo chiaro quali posizioni possano lecitamente entrare nella definizione di sunnismo. L’esito sorprendente è che per la prima volta è stata esplicitamente esclusa l’appartenenza del salafismo/wahabismo al sunnismo, quanto meno al suo corpo centrale. Si è così andati oltre la condanna di atti esecrabili compiuti da Isis o altri gruppi estremisti per colpire direttamente, almeno così si può dedurre, le radici teologiche su cui questi gruppi fondano la propria azione e legittimazione.



Il fatto più rilevante, tuttavia, è che il wahabismo è la scuola teologica dominante in Arabia Saudita, nel Qatar e diffuso in altri Paesi musulmani, alla radice anche del movimento dei Fratelli musulmani. I quali hanno reagito con una nota in cui si accusa la conferenza di Grozny di spargere divisioni nel mondo musulmano proprio in concomitanza con il pellegrinaggio alla Mecca, che dovrebbe essere segno di unità per tutti i musulmani. Si accenna anche a complotti e tradimenti eterodiretti, ripresi nelle veementi reazioni dell’Arabia Saudita, che definiscono la riunione di Grozny un tentativo della Russia, sotto la copertura delle dichiarazioni teologiche, di formare una coalizione anti saudita guidata dall’Egitto.



Il ruolo giocato dalla Russia — la Cecenia fa parte della Federazione russa — e dall’Egitto, soprattutto con il grande imam della moschea Al Azhar del Cairo, Ahmed al-Tayeb, è innegabile. Come riporta Asianews, padre Samir Kalil Samir, ben noto anche ai lettori del sussidiario, ha definito la conferenza “un fatto davvero straordinario. L’Egitto sembra essere stato l’iniziatore” e rimanda alla richiesta fatta nel dicembre del 2014 dal presidente egiziano al-Sisi. In quell’occasione, proprio durante una visita ad Al Azhar, il generale aveva chiesto una “rivoluzione religiosa” all’interno del mondo musulmano, dicendo tra l’altro che “È inconcepibile che il pensiero che noi riteniamo più sacro faccia dell’intera umma (comunità musulmana mondiale, ndr) una causa di ansietà, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo”.



Nelle reazioni saudite, come sempre nelle questioni islamiche, si intrecciano componenti religiose con fattori geopolitici. Sotto il primo profilo, se a Grozny sono stati i wahabiti ad essere estromessi dal cuore del sunnismo, a Riyadh considerano la conferenza una deviazione dal vero islam provocata da sufi e sciiti, entrambi considerati eretici da combattere. 

Sotto il secondo aspetto, lo Stato dove gli sciiti sono la stragrande maggioranza è l’Iran, il cui regime è altrettanto confessionale di quello saudita, ma un suo deciso avversario su diversi fronti, dalla Siria allo Yemen. Teheran ha ben accolto l’incontro di Grozny, anche per il già citato ruolo di al-Tayeb, che in passato ha già auspicato un riavvicinamento tra sunniti e sciiti. All’inizio di settembre si è aperta un’altra grave crisi nei rapporti tra Iran e Arabia Saudita con il divieto di partecipazione dei pellegrini iraniani al pellegrinaggio annuale alla Mecca. La motivazione è lo scambio di accuse tra i due governi sulle responsabilità per la tragica calca che l’anno scorso causò diverse centinaia di morti tra i pellegrini, di cui quasi 500 iraniani.

Questa polemica mette in rilievo un nuovo pericoloso fronte per i regnanti sauditi che, come noto, si fregiano del titolo di Custodi dei luoghi sacri dell’islam, un titolo e un ruolo difficili da mantenere se la maggioranza del mondo musulmano accettasse le conclusioni di Grozny. Comunque, è probabile una sempre più decisa azione di ostacolo all’espansione del wahabismo, sia nei Paesi musulmani che altrove, e ai finanziamenti che arrivano a questi gruppi soprattutto da Arabia Saudita e Qatar.

Queste azioni saranno rese più facili, come sottolineato da qualche commentatore, dalle difficoltà finanziarie che il regno saudita sta incontrando a causa del basso prezzo del petrolio, conseguenza di una guerra dei prezzi voluta dagli stessi sauditi. Forse non a caso si sono aperti contatti con Mosca per un possibile “raffreddamento” di questa guerra.

Ed ecco l’altro aspetto importante sotto il profilo geopolitico: in diversi di questi avvenimenti si ritrova la Russia di Putin. Mosca è alleata di Teheran, con l’Iran e le forze locali sciite è parte attiva, e per certi versi risolutiva, nella guerra in Siria, ha riallacciato i rapporti con la Turchia e, sotto traccia, anche con Israele. Negli ultimi tempi è apparso chiaro il suo impegno in Libia a sostegno del governo di Tobruk, in particolare del generale Haftar, sostenuto guarda caso dall’Egitto.

Data l’estrema volatilità della situazione mediorientale, difficile dire quanto questa strategia rimarrà stabile e quali ne saranno i risultati finali. Ciò che rimane confermata è la confusione nella strategia statunitense, che sembra rimanere costantemente spiazzata dagli avvenimenti sul terreno. Washington rischia di ritrovarsi isolata con Riyadh, cui sta inviando ancora armi da usare nella quasi dimenticata guerra nello Yemen. Nello stesso tempo, però, il Congresso ha votato una legge che consente alle famiglie delle vittime dell’11 settembre di citare in giudizio il governo saudita, ma Obama sembra deciso a porre il suo veto. Forse la confusione non è solo nella politica estera.