L’esito della votazione dell’altro ieri al senato brasiliano per la destituzione della presidente Dilma Rousseff pareva quasi scontato: 61 voti contro 20 hanno decretato la fine di un’era e di un processo che dal novembre scorso ha visto indagata l’ormai ex presidente. Le accuse sono chiare: occultamento del deficit statale in favore della sua rielezione nel 2014, falsificazione dei conti pubblici, emissione di tre decreti per modificare i bilanci senza l’autorizzazione del congresso, aver infranto la legge di responsabilità fiscale e gonfiato i limiti di spesa statale in forma unilaterale, aver provocato un aumento del deficit e ritardato i depositi al Banco do Brasil: tutte azioni anticostituzionali classificate come reati di tipo amministrativo. Al di là delle accuse dirette non è sfuggito neppure all’opinione pubblica nostrana come la crisi del sistema paese, incapace di risanare i deficit, si sia direttamente ripercossa sul sistema di governo, che ormai da 3 mesi ha delegittimato Dilma Rousseff.
Lo scenario è estremamente sfavorevole: mai come dall’inizio del suo mandato nel 2014 l’andamento dell’economia è parso tanto in crisi. Il Pil ha mostrato una flessione del 3,8% nel 2015 e si pensa cadrà ancora di un -3,1% quest’anno. La disoccupazione è cresciuta marcando un record di più di 11 milioni di persone, l’inflazione è a due cifre, i conti pubblici sono in rosso per 45mila milioni di dollari. Inoltre, l’ondata di accuse per l’operazione Lava Jato, vincolata all’impresa petrolifera di stato Petrobras, ha contribuito a far cadere in disgrazia l’immagine presidenziale, il tutto condito da una campagna di stampa assai aggressiva.
Sembrano lontani anni luce i tempi d’oro della sinistra brasiliana, che ha governato il paese per 15 anni, quando il PT aveva avviato importanti riforme sociali, incidendo positivamente sull’occupazione e garantendo una significativa redistribuzione della ricchezza grazie alla lotta contro le marginalità con il piano Borsa Famiglia, un sostegno determinante per oltre 30 milioni di persone.
La rottura ebbe inizio il 15 novembre 2015, quando un gruppo di giuristi richiese ai deputati che aprissero un’inchiesta contro la presidente. Tre settimane più tardi il presidente della camera Eduardo Cunha diede il via all’inchiesta, mentre il vicepresidente Michel Temer diffondeva una lettera diretta alla presidente con la quale si accusava Rousseff di escluderlo dalle responsabilità di governo. Nel contempo una commissione speciale si dedicava ad esaminare il caso. Nei mesi seguenti Temer divenne il principale sostenitore dell’impeachment, mentre Rousseff commetteva l’errore politico di nominare il suo predecessore, Lula da Silva, come capo di gabinetto: un’intercettazione telefonica ha messo in luce la scelta come possibile tentativo di proteggere Lula dalle accuse di corruzione in Petrobras.
Il parlamento si spacca: all’inizio di aprile l’avvocato generale dello stato José Eduardo Cardozo lascia ogni incarico per diventare il difensore personale della presidente. Una settimana più tardi la commissione speciale approva il processo e dopo 6 giorni lo fa anche la camera bassa.
L’avvocato della presidente è stato perentorio: “è ovvio che non esistono i reati di responsabilità di cui si accusa Dilma. Tutti i presidenti precedenti hanno preso simili misure fiscali ma nessuno ha mai sostenuto che fossero illegali. Ciò che c’è stato è stato un cambiamento di interpretazione giuridica, che a mio parere è stata errata e spinta politicamente”.
Il 12 maggio la sospensione è decretata dal senato: 55 voti a favore e 22 contrari. Da quel momento la Rousseff si è difesa da ogni accusa, tacciando i suoi calunniatori di sensazionalismo e di sommare alle imputazioni scelte compiute anche dai suoi ministri. Temer, dal canto suo, durante gli ultimi tre mesi ha già cominciato un fitto piano di riforme: limitare la spesa pubblica e riformare il sistema pensionistico, considerato troppo generoso. La situazione brasiliana è in effetti catastrofica, si tratta della peggiore recessione economica dagli anni Trenta: solo nel 2021 è previsto un ritorno al Pil pro-capite del 2013 e pertanto sono necessarie riforme profonde, come il contenimento della spesa pubblica e la razionalizzazione del sistema impositivo.
Dopo i giochi olimpici di Rio, il 9 agosto torna alla ribalta il tema impeachment, tanto che i senatori approvano in maggioranza la continuità del processo. Il 29 agosto Dilma si difende da sola davanti a Congresso: “sono vittima di una pena di morte politica”, e “siamo a un passo da una grave rottura istituzionale”, che non ha esitato a definire golpe. Anche i richiami alle torture subiti nel corso dell’ultima dittatura militare non sono valsi a salvarla. In ogni caso, le si permetterà di ricandidarsi alle prossime elezioni, previste per il 2018.
La battaglia non si è conclusa: gli esponenti del PT ricorreranno al Supremo Tribunale Federale, in caso di sconfitta si palesano già altre possibilità tra le quali adire gli organismi internazionali come la Commissione Interamericana per i diritti umani e la Corte Interamericana per i diritti umani, ma il supporto popolare è minimo: solo 1500 militanti del PT e dei movimenti sociali di sinistra hanno manifestato al Congresso per esprimere la propria solidarietà alla presidente, un dato che mette in luce l’isolamento della Rousseff.
Restano le elezioni amministrative di ottobre come banco di prova per il PT. Non sarà semplice: contro il partito c’è l’intero ceto medio brasiliano, che ha visto ridursi drasticamente il suo potere d’acquisto ed è corroso dalla disoccupazione. Senza dimenticare che il trend positivo che aveva consentito l’espansione del mercato interno e una maggiore mobilità sociale è giunto al capolinea.