Le conclusioni della conferenza sunnita tenutasi a Grozny alla fine di agosto sembravano essere un punto di svolta nel mondo musulmano con la traumatica condanna del wahabismo/salafismo, definito come origine dell’estremismo islamico, da al Qaeda all’Isis, passando per la Fratellanza musulmana. 

Questo giudizio costituiva una sconfessione anche teologica del regime saudita, che della corrente wahabita ha fatto il fondamento del suo potere, insieme al Qatar e altri Stati del Golfo. La riunione, non a caso tenuta in Cecenia, sembrava sancire il ruolo determinante della Russia, mentre la condanna dei Fratelli musulmani rappresentava una vittoria del regime militare egiziano, rafforzata dalla significativa presenza di al Azhar alla conferenza. Gli sconfitti sembravano, quindi, gli Stati Uniti che continuano, sia pure in modo non del tutto coerente, a sostenere l’Arabia Saudita. 



Nel giro di un paio di settimane tutto sembra essere rimesso in discussione. Sotto il profilo teologico, da Al Azhar è arrivata una pesante smentita sul ruolo a Grozny della moschea e del suo grande imam, al Tayeb. Secondo quanto riportato da al Monitor, in un comunicato alla stampa del 6 settembre, il vice grande imam della moschea cairota ha dichiarato che al Azhar come tale non ha partecipato alla conferenza, né tanto meno l’ha organizzata. Di più, il comunicato afferma che le conclusioni hanno tradito le parole di al Tayeb, che nel suo discorso iniziale aveva incluso nel “vero” sunnismo anche i salafiti.



Il comunicato appare come un tentativo di riconciliazione con l’Arabia Saudita, la cui tesi è che la conferenza è stata manovrata dai russi in funzione antisaudita, in accordo con il governo egiziano. I sauditi avevano infatti accusato Al Azhar di essere asservita al governo di al Sisi. Malgrado anche le sue finanze siano indebolite dalla guerra del petrolio da lei scatenata, l’Arabia Saudita rimane ancora sufficientemente importante per sconsigliare scontri diretti, sotto il profilo religioso, ma soprattutto sotto quello economico. Preoccupazione manifestata, già a Grozny, da esponenti di Paesi come India e Malesia, insieme peraltro alla denuncia della seria minaccia causata dall’espansione dell’estremismo wahabita.



Particolarmente pericolosi sono però gli ultimi avvenimenti sul piano geopolitico, con il bombardamento americano di una base dell’esercito governativo siriano durante la tregua sponsorizzata da Usa e Russia. La conferenza di Grozny era una delle ultime mosse di Mosca per dare alla Russia il ruolo di “Lord Protettore” di un nuovo assetto stabile della regione, approfittando della disastrosa politica statunitense e del vuoto lasciato dalle ex potenze europee. Una stabilità che sarebbe stata assicurata da un’intesa di interesse tra una serie di Stati governati in modo autoritario: la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Turchia di Erdogan, l’Egitto di al Sisi.

Questo quadro viene posto in discussione dai bombardamenti, che molti tendono a credere che non si sia trattato di un errore, come sostiene il Pentagono nelle sue scuse. La conseguenza  gravissima è che diventa aperto e diretto lo scontro finora latente tra Usa e Russia. Al di là dell’estrema pericolosità in sé, ciò rappresenta un deciso arretramento nelle possibilità di raggiungere un qualche accordo in Siria e un oggettivo aiuto agli estremisti. Non migliorerà la situazione neppure in Iraq, con la  riacutizzazione delle tensioni tra sunniti e sciiti, rimasti soddisfatti delle conclusioni di Grozny. E la situazione nello Yemen rischia di peggiorare ulteriormente, proprio quando sembrava che a Washington cominciasse a sorgere qualche dubbio sul modo in cui i sauditi stanno conducendo la guerra contro gli Houthi. Né è molto rassicurante che anche Israele abbia ripreso le ostilità contro Assad nel Golan.

Su questo sfondo, ecco arrivare gli attentati negli Stati Uniti che, comunque li si interpreti, forniscono la giustificazione per una politica “forte”, più nelle corde di Hillary Clinton (e di Obama) che di Donald Trump. Le tendenze isolazionistiche di quest’ultimo potrebbero portarlo a delegare “all’amico” Putin il compito di affrontare le innumerevoli gatte da pelare che presenta il Medio Oriente, magari insieme agli europei, che Trump accusa di volersene stare al riparo della protezione americana. In fondo, il vero fronte per gli Stati Uniti non è il Mediterraneo, bensì il Pacifico.

Il rapimento di due italiani in Libia, per il quale non si può che sperare in un esito positivo, porta in luce la drammatica situazione in cui versa la Libia, nonostante l’intervento dell’Onu. Un intervento per lo meno discutibile, dato che l’Onu aveva riconosciuto come legittimo il governo di Tobruk e non quello di Tripoli, ma poi ne ha costituito un altro in Marocco, il cosiddetto governo di unità nazionale di al Serraj, non accettato da Tobruk, ma ospitato da Tripoli. 

In questo modo si è accentuata la divisione tra le due regioni libiche, favorendo l’intervento egiziano a favore del generale Haftar e di Tobruk. Il generale è riuscito a liberare i terminal e i porti da cui parte buona parte del petrolio libico, di cui è ricominciata l’esportazione. Haftar è però stato costretto dall’Onu ha ritirare le sue truppe, lasciando il controllo della zona alle guardie della NOC, la compagnia petrolifera libica, malgrado l’opposizione del governo egiziano. Oltre che dal Cairo, Haftar sembra appoggiato anche dai russi e, dietro le quinte, anche da Francia e Regno Unito, il cui profondo interesse per il petrolio libico continua, in funzione chiaramente anti-italiana. 

I russi hanno finora appoggiato al Sisi e stanno ora trattando la vendita di armi all’Egitto, una specie di bilanciamento delle continue vendite statunitensi all’Arabia Saudita, ma anche un ampliamento della loro presenza sulle sponde del Mediterraneo. Una situazione questa che potrebbe forse non infastidire troppo Trump, ma la Clinton? Per lei, Bengasi rimane tuttora un incubo.