Alcuni fatti recenti hanno riportato in evidenza il conflitto in Ucraina, finora oscurato dalle tragedie mediorientali. Innanzitutto la visita del presidente ucraino negli Stati uniti e il suo discorso alla Assemblea delle Nazioni Unite. Poroshenko ha accusato Putin di condurre una guerra ibrida, una guerra non dichiarata contro il suo Paese, aiutando i separatisti filorussi dell’Ucraina orientale finanziariamente, con la propaganda, con l’invio di mercenari e di propri soldati. Poroshenko non è riuscito ad incontrare Trump, ma nell’incontro con Hillary Clinton ha avuto assicurazioni sul completo appoggio contro Mosca nel caso lei diventasse presidente. Negli stessi giorni, il Congresso ha votato un progetto di legge che consente la fornitura di armamenti all’Ucraina, provvedimento finora bloccato tuttavia da Obama.
Lo stesso Poroshenko ha però dovuto difendersi dalle critiche per le mancanze del governo ucraino nella realizzazione degli Accordi di Minsk, gli accordi firmati nella capitale bielorussa nel settembre 2014 tra Russia, Ucraina e separatisti, la cosiddetta Minsk 1, e poi ripresi nell’accordo Minsk 2 del febbraio 2015 tra Usa, Russia, Francia e Germania, garanti del loro rispetto da parte del governo ucraino e dei separatisti filorussi. Da allora, tregua dopo tregua e con un continuo palleggio di responsabilità, la pace è rimasta lontana, nonostante la guerra abbia fatto finora più di 9.600 vittime e causato quasi due milioni di rifugiati.
Dopo la cacciata di Yanukovich, nel 2014, l’annessione della Crimea da parte della Russia e l’inizio del conflitto nella parte orientale, l’economia ucraina ha cominciato ad affondare, con un costante peggioramento delle condizioni di vita del popolo, mentre è rimasto pressoché intatto il potere degli oligarchi e l’elevatissimo livello della corruzione, che pone l’Ucraina in fondo alla graduatoria europea. I due governi succedutisi dopo Yanukovich hanno cercato di varare riforme, ma la situazione viene ancora giudicata lontana da un livello minimamente accettabile. E’ per esempio il giudizio del Fmi che, dopo averlo bloccato per diversi mesi, ha dato il via a un finanziamento di un miliardo di dollari, ma con un giudizio piuttosto severo sulle riforme attuate, o meglio, non attuate.
Le difficoltà di agire in profondità ed efficacemente contro un sistema ormai consolidato, che tocca perfino la cerchia attorno al presidente, anche se Poroshenko non è direttamente coinvolto (sebbene anch’egli classificabile come un oligarca), sono state riconosciute sia dal precedente Primo ministro, Arseniy Yarsenyuk, che dall’attuale, Volodymyr Groysman. Il problema sembra essere soprattutto il sistema giudiziario, per il quale viene suggerito un rinnovo totale, data la concentrazione di magistrati corrotti o comunque conniventi. Interessante la notazione, riportata dal britannico Independent, di un parlamentare ucraino di origine afgana, Mustafa Nayeem: “Se critichi il sistema, vieni accusato di essere un populista, o addirittura di lavorare per i russi, così cercano di evitare le loro responsabilità”.
Anche gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme attraverso il vicepresidente Joe Biden, che ha avvertito che senza riforme almeno cinque governi europei potrebbero chiedere il ritiro delle sanzioni contro la Russia, indebolendo così la posizione di Kiev verso Mosca. Il rinnovo delle sanzioni dovrebbe essere discusso il mese prossimo e, in effetti, diversi Paesi europei, tra i quali è annoverata l’Italia, sarebbero propensi a lasciarle cadere, vista la loro sostanziale inutilità, se non dannosità.
Uno dei motivi alla base dell’insorgenza del Majdan era la rottura da parte di Yanukovich dei colloqui per l’associazione all’Unione Europea e, di conseguenza,il nuovo Parlamento ha subito dato il via al progetto di associazione. Attualmente i rapporti con l’Ue sono gestiti con un accordo provvisorio che, per diventare definitivo, deve essere approvato da tutti i 28 membri dell’Unione. Negli scorsi giorni il primo ministro olandese, Mark Rutte, ha dichiarato che il suo governo non firmerà il trattato di associazione, che è stato rifiutato nel referendum tenuto nei Paesi Bassi lo scorso aprile. Il risultato del referendum non è vincolante e la partecipazione era stata solo del 32%, di poco superiore al minimo richiesto del 30%. Tuttavia, sotto la pressione dei partiti di opposizione, Rutte sembra intenzionato a non ratificare il trattato, a meno di cambiamenti che sembrano tuttora in discussione con Bruxelles.
L’Ucraina sembra purtroppo essersi aggiunta a una serie, troppo lunga, di Paesi in cui l’intervento americano non ha tenuto fede alle motivazioni e alle promesse per cui era stato fatto: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia. “Il mio Paese non ha avuto la svolta europea che era stata promessa. Quelli arrivati al potere a Kiev con gli applausi delle élite occidentali sperano ora che i loro partner internazionali chiudano un occhio sul modo in cui gestiscono il Paese”, scrive su The Guardian Vadim Novinsky, parlamentare ucraino dell’opposizione. E denuncia una serie di interventi del governo diretti a contrastare in modo autoritario le opposizioni. Importante la sua conclusione: “l’Ucraina ha un bisogno disperato di pace con i suoi vicini. Il Paese chiede una riconciliazione nazionale. Devono essere rispettati i diritti legittimi delle opposizioni. Solo raggiungendo questi obiettivi fondamentali possiamo affrontare l’impegnativa missione di ricostruire il nostro Paese, così da diventare una risorsa per l’Europa, non un peso e un problema”. Riuscirà l’Europa a rispondere seriamente a un invito così drammaticamente ragionevole?