Venerdì in Siria nuovi bombardamenti ad est della martoriata Aleppo hanno causato la morte di circa 90 persone, tra cui decine di bambini. Secondo fonti locali l’offensiva è stata compiuta dalle forze del regime siriano e da quelle russe nella zona della città controllata dai ribelli. Pochi giorni prima la coalizione anti-Isis a guida americana aveva ammesso di aver colpito “in modo non intenzionale” una base governativa nell’est del paese, provocando la morte di 62 militari. Nel frattempo, lo scorso martedì, le Nazioni Unite hanno bloccato le spedizioni di aiuti in Siria dopo l’abbattimento di un convoglio umanitario diretto ad Aleppo. La Russia accusa gli americani di sostenere lo stato islamico e altri gruppi terroristici, gli Stati Uniti accusano la Russia di bombardare i civili. Ecco, in estrema sintesi, il tragico epilogo dell’ennesima tregua fallita in Siria. 



Di chi è davvero la colpa? E soprattutto, possiamo davvero sperare in un epilogo migliore? Difficile rispondere a queste domande, ma una cosa appare evidente: se la tregua è una “sospensione delle ostilità per un periodo di tempo limitato, decisa dalle parti in conflitto”, il fatto che le varie tregue in Siria siano negoziate da Stati Uniti e Russia non dovrebbe lasciare grossi dubbi su chi siano le principali parti in conflitto e su chi, dunque, dovrebbe adoperarsi per la pace. Vista da questa amara prospettiva, la pacificazione del paese appare molto difficile da realizzare.



Gli Stati Uniti, fedeli al patto di ferro che nel lontano 14 febbraio 1945 Roosevelt siglò a bordo di una nave americana a poche decine di miglia da Suez con Ibn Saud, restano indissolubilmente legati all’Arabia Saudita e alle principali potenze del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Whashington è il principale fornitore di armi nella regione. Durante gli otto anni di presidenza Obama ne ha vendute ai sauditi per un valore di 115 miliardi di dollari, superando il record degli ultimi 70 anni. L’Arabia Saudita, assieme alle altre monarchie del Golfo, è il principale finanziatore dei gruppi islamici radicali ma anche della compagna elettorale di Hillary Clinton. Davanti a tale scenario è probabile che qualcuno si chieda: perché anteporre la vita dei siriani alla necessità di sostenere la linea saudita dell’abbattimento del regime di Assad?



E la Russia potrebbe barattare i suoi interessi in Medio Oriente con la pace in Siria? Una domanda che solo nella più ottimistica delle ipotesi potrebbe restare senza risposta. Putin nell’area controllata da Damasco ha il suo principale sbocco sul mare, il porto militare russo di Tartous, nella zona ovest del paese, un asset a dir poco strategico per il Cremlino. 

Non solo: allargando lo sguardo poco al di là della Siria, nell’area ci sono tanti buoni motivi per cui Putin ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco della discordia piuttosto che sul vento della pace. C’è in gioco molto di più di un paese martoriato dalla guerra con uno sbocco sul mare. C’è in gioco un nuovo ordine internazionale in cui la Russia può ambire a ricoprire la posizione di attore egemone ed è per questo che Putin spinge per un’alleanza politica, militare ed economica, con l’Iran e la Cina, per far arretrare gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali in Medio Oriente ed entrare senza colpo ferire negli spazi lasciati liberi dalla presenza del nemico strategico. A solo titolo semplificativo, nel 2011, subito dopo il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, la Russia ha iniziato ad intessere accordi per la fornitura di armi con il governo del primo ministro Nuri al-Maliki con cui, nell’ottobre del 2012, ha siglato contratti per la vendita di armamenti per oltre 4  miliardi di dollari. Nel 2014, subito dopo la condanna americana del golpe di al Sisi e la conseguente minaccia di interruzione degli aiuti militari — 1,5 miliardi di dollari annui — l’Egitto avrebbe firmato un accordo con la Russia per la fornitura di armi per un valore superiore ai 3 miliardi di dollari. Non è un caso se il primo viaggio all’estero del presidente egiziano si sia svolto proprio in Russia. 

Gli esempi potrebbero continuare ma tanto basta per capire come, visto da questa prospettiva, ogni Stato del Mediterraneo rappresenti, come in un rinato assetto clientelare bipolare, una pedina indispensabile del personale risiko delle due superpotenze. Per questo motivo gli Stati Uniti hanno svenduto la causa curda alla Turchia, pur di riaverla al loro fianco dopo la minaccia di defezione e di riallineamento nella sfera russa, conseguente alle “bizze” americane sull’estradizione di Fethullah Gülen, considerato da Erdogan il mandante del fallito golpe. Ed è anche per questo motivo che in Libia gli Stati Uniti si sono affrettati a sostenere il Governo di accordo nazionale di Serraj, supportando con i raid aerei le truppe di Misurata, a lui fedeli, nella guerra contro il califfato a Sirte, tentando così di arginare la possibile minaccia della Russia che, oramai da tempo, sostiene, arma e finanzia il generale Haftar. 

Visto da questa prospettiva il dramma del popolo siriano appare solo come un triste epifenomeno della lotta per l’egemonia nel Medio Oriente, sacrificabile sull’altare dell’interesse nazionale. 

E la pace è sempre più lontana.