E’ stato scritto nelle ultime ore e, forse, lo si farà nei prossimi giorni che Shimon Peres (1923-2016) è stato l’uomo che ha cercato la pace con i palestinesi. L’affermazione è vera, ma non chiarisce perché la pace non è stata raggiunta. Le ragioni sono, ovviamente, molte, ma qualcuna, inaspettatamente per il grande pubblico, ricade anche sulle spalle del politico che si è spento ieri a Tel Aviv.



E’ giusto allora ricordare il dibattito, vivacissimo interno al Partito Laburista, intorno ad uno dei temi centrali del negoziato di pace con i palestinesi: il futuro di Gerusalemme. Un argomento talmente centrale da determinare una falla non più richiudibile negli accordi di pace di Oslo, del 1993. In quelle intese, il futuro di Gerusalemme veniva lasciato in sospeso e rinviato ad un’ulteriore intesa tra le parti, da raggiungere con altri colloqui e comunque dopo il rafforzamento della  pace su altri campi: le  frontiere, l’amministrazione dei territori palestinesi, la sicurezza assicurata dalle nuove forze di polizia palestinesi.



In una trattativa politico-diplomatica quando un argomento viene posto all’ultimo capoverso del materiale in discussione, questo vuol dire che è particolarmente spinoso. D’altra parte ben pochi potevano immaginare che l’argomento sarebbe rimasto insoluto e nel contempo la pace avrebbe potuto rafforzarsi. 

Yossi Beilin, uno dei più importanti mediatori di parte israeliana degli accordi di Oslo, era di questo convinto, della necessità di affrontare in modo “negoziale” anche il problema di Gerusalemme. A Tel Aviv, in una calda giornata estiva durante un convegno del Partito Laburista, nel 2003, anche di questo si discute. Ebbene, Shimon Peres prende la parola e scandisce, rivolto al suo uditorio, che Gerusalemme non potrà mai più essere divisa e dovrà rimanere la capitale, indivisa, dello Stato Ebraico. 



E’ un colpo durissimo a chi ricerca su Gerusalemme un compromesso con le aspirazioni dei palestinesi. Yossi Beilin chiede immediatamente la  parola per contestare le affermazioni di Peres, ma il dibattito si esaurisce in breve tempo, ciascuno fermo sulle proprie posizioni. Beilin, qualche tempo dopo, lascerà il Partito Laburista e più tardi la vita politica. Peres, viceversa, si avvicinerà alle posizioni del generale Sharon, lascerà il Partito Laburista, condividerà con Sharon il piano di ritiro dei profughi da Gaza ed insieme il rifiuto di ogni possibilità per i palestinesi di fare di Gerusalemme anche la loro capitale. Peres diventerà il presidente di Israele, con il sostegno decisivo del partito di centro, Kadima, fondato proprio da Sharon.

Aver ricordato la posizione di Peres su Gerusalemme, sconosciuta al pubblico internazionale, può invece aiutare a capire perché gli accordi di Oslo sono poi collassati.

Altro punto  su cui riflettere è la presenza sempre più massiccia dei coloni ebrei nei territori palestinesi. Giustamente è stato ricordato che fu proprio Shimon Peres, ministro della difesa, all’inizio degli anni 70 ad autorizzare l’ingresso dei primi coloni  e la costruzione dei primi insediamenti.  

Dal punto di vista strategico era certa la  volontà di riannodare i legami con una storia, anche dolorosa, come l’espulsione degli ebrei da Hebron negli anni 30. Dal punto di vista politico fu un atto disastroso che  vide l’espansione numerica dei coloni ed oggi l’impossibilità a rimuoverli, rendendo  ogni futuro stato palestinese privo di una continuità territoriale.

Il ritiro dei quasi 8mila coloni ebrei da Gaza, voluto da Sharon e sostenuto da Peres, si accompagnava, infatti, alla riaffermata volontà di mantenere gli insediamenti israeliani a Gerusalemme est e in Cisgiordania (oltre 500mila coloni), con qualche  sporadica eccezione. Si comprende bene come questo enorme problema, che di anno in anno si è accresciuto, non poteva favorire il raggiungimento di un’intesa stabile. E così è stato. 

Il futuro di Gerusalemme e l’espansione dei coloni in Cisgiordania: questi problemi, decisivi per una pace vera, Peres non li ha affrontati, o meglio è rifuggito da quella visione negoziale che Beilin invocava. Strano paradosso per chi nel contempo affermava, con maturata convinzione, che con i palestinesi “fare la guerra non ha senso”. La politica, quella che si concretizza in atti per evitare la guerra e fare la  pace, non era però il suo punto di forza. Senza Rabin e senza Sharon, Peres non sarebbe stato il politico “illuminato”. 

Il rapporto con Hamas ne è in qualche modo la prova. Quando Hamas vince le elezioni politiche palestinesi nel 2006, Peres ne vede solo i pericoli e nessuna opportunità politica per far cessare terrorismo e una trentennale ostilità verso Israele. Verso Hamas a Gaza sostiene il blocco imposto da Netanyahu, ma non coglie la  profondità del disastro umanitario e la crescita del rancore verso Israele. 

Su un altro conflitto invece Peres ha agito pragmaticamente: quello incombente con l’Iran. Dopo aver per anni alimentato la  paura verso un Iran nuclearizzato, dopo aver di fatto sostenuto Netanyahu nei suoi preparativi militari per un attacco all’Iran, Peres, negli ultimi cento metri verso il conflitto, ha dato ragione a Barack Obama: meglio le sanzioni economiche all’Iran che l’attacco aereo israeliano. Lo ha fatto, convincendo anche Netanyahu, perché non bisognava mettersi contro un alleato storico. L’accordo con l’Iran è stato raggiunto, la guerra è stata scongiurata. Israele, in questi giorni, ha incassato un nuovo accordo decennale, firmato da Barack Obama, per complessivi 38 miliardi di dollari in aiuti militari statunitensi. Adesso, però, la politica israeliana non avrà più l’immagine di Peres, l’uomo che cercava la pace. Con sincerità ed errori.