NEW YORK — Ormai la notizia è vecchia: il (quasi-) consenso dei media, con qualche interessante eccezione, in Italia e negli Stati Uniti, è che Hillary Clinton abbia (quasi-) vinto contro Donald Trump il primo dibattito di queste elezioni americane. Insomma, la “Insopportabile” avrebbe avuto la meglio sull'”Impresentabile” (prendo a prestito le caratterizzazioni che una brillante giornalista aveva usato anni or sono per designare rispettivamente i membri più vociferanti del partito democratico e di quello repubblicano). 



Ma — ammesso e non concesso che questa percezione di vittoria sia esatta, e ammesso e non concesso che l’idea di “vincere” un dibattito abbia senso — forse le questioni su cui riflettere sono differenti.

Prima di tutto: la Clinton non avrebbe potuto non essere dichiarata vincitrice (a meno che non fosse svenuta sul palco). Troppo forti infatti sono i reciproci condizionamenti politico-finanziari (richiamati più volte sul sussidiario) e politico-mediatici; a proposito dei secondi, va ricordato che, in un paese in larga misura post-coloniale come lo è l’Italia dal 1945, il potere della retorica dell’impero, schierata a favore della sua imperiale funzionaria, è soverchiante. Trump è il nuovo che avanza, oltre tutto in modo tumultuoso e poco composto, mentre la Clinton è l’usato sicuro: come meravigliarsi che quasi tutti i rappresentanti dei media si siano messi a whistle in the dark (“fischiettare al buio”, per farsi coraggio), volendo proiettare a ogni costo un’immagine di stabilità, dopo lo scossone del “Brexit” e in attesa di altri scossoni referendari ed elettorali?



Se si considerano plausibili tali condizionamenti, si capisce come sia poco fondata la critica (già apparsa peraltro in alcuni quotidiani italiani) secondo cui questi dibattiti non servirebbero a niente. Il punto infatti non è se servano o no a guadagnare direttamente voti: i dibattiti sono simboli potenti, e i simboli sono la materia prima della finanza (nonostante la sua apparenza di scienza esatta) e della politica (nonostante la sua illusione di razionalità).

Ma non basta: i dibattiti contano, al di là di ogni loro funzione, per il solo fatto di esistere. Vedere per ben tre serate i candidati a una posizione di vero, grande potere discutere fra loro senza copione per novanta minuti, con stretti (e rispettati) limiti per ogni successivo intervento, di fronte a milioni e milioni di cittadini, significa vedere la democrazia in azione; e gli intellettuali italiani supercritici verso i dibattiti americani dovrebbero prima di tutto riconoscere che uno degli aspetti in cui l’Italia si rivela un paese a democrazia limitata è l’impossibilità di assistere a confronti di questo tipo, la cui lunga durata è già un fattore qualitativo (per cui vale la pena di sopportare qualche sbadiglio). 



Insomma, questi dibattiti appartengono agli ultimi resti di democrazia nel mondo occidentale (che poi il potere trovi modo di neutralizzare gli effetti di questi dialoghi, e continui a lavorare essenzialmente nelle segrete stanze, è un’altra questione). 

Detto ciò (e fermo restando che il risultato presidenziale è ancora incerto), non si può non sottolineare — alcuni hanno già cominciato a farlo — il dilemma che rischia di schiacciare Donald Trump. Se continua a presentarsi nel modo, che direi ansiosamente composto, di lunedì sera — proiettando l’immagine del “Maestro Costruttore” (Master Builder) — rischia di perdere la base popolare che l’ha proiettato in avanti durante il corso dell’anno passato, ma può garantirsi il rispetto di un ulteriore numero di produttori decisi e decisivi, essenziali per lo sviluppo del paese (ho prelevato un’espressione che mi sembra appropriata: Master Builder è il titolo inglese — preferibile a quello letterale italiano, Il costruttore Solness — del grande dramma di Henrik Ibsen del 1892).

Se Trump invece torna all’espressionismo scatenato delle sue origini — e insomma ritrova il coraggio, o la sfrontatezza, di presentarsi come un palazzinaro d’assalto, non privo  d’intelligenza e con un forte senso dell’umorismo — allora recupera le vecchie lealtà ma rischia di perdere i disertori dall’esercito della correttezza politica (comprese le disertore dal femminismo) che aveva saputo nel frattempo conquistarsi. La Clinton non ha questo dilemma, dunque è ancora la più vicina alla presidenza: le basta infatti continuare a recitare le sue liste di cifre e a godere delle sue rendite ideologiche.

Ma un dibattito è fatto anche di linguaggio, non solo di contenuti; e non bisogna mai dimenticare la grande creatività neologistica della lingua inglese (alla barba del purismo): come quando Trump ha usato un paio di volte l’avverbio bigly per dire “alla grande”. Nel complesso, però, debbo confessare che mi sono mancati certi graffi. Ho contato, se non sbaglio, solo due momenti minimamente vivaci. Quando la Clinton ha detto (lodevolmente) “Mi scuso” a proposito dei famosi messaggi elettronici sviati, Trump ha interloquito: “E qui hai detto giusto”; e nel momento in cui la candidata ha tentato una battuta (incautamente, in presenza di un artista in questo genere) esclamando con un sorriso: “Di questo passo, finirò con l’essere accusata di tutto quello che è andato storto!”, Trump non ha perso un secondo per rilanciare con faccia di bronzo: “E perché no?”. E’ stato l’unico momento (era ora!) in cui il pubblico è scoppiato a ridere.