NEW YORK — Un opinionista del New York Times ha scritto: “Una volta, se ben rammento, avevamo divergenze che erano filosofiche e ideologiche. Una volta, la politica consisteva di dibattiti fra i progressisti e i conservatori, fra diverse concezioni della natura del governo, diverse visioni sui valori dell’America e sul suo ruolo nel mondo. Ma pare che quest’anno tutto sia stato ridotto all’osso. Il discorso politico si divide secondo linee rozze —linee di razza e di classe”. Ora, con tutto il rispetto per il pubblicista appena citato (David Brooks, il più colto e civile tra i saggisti del quotidiano di New York), va detto che questa  immagine nostalgica ha poco o nulla a che fare con la realtà della politica americana. “Rozze” o no, le linee di frattura del dibattito politico americano sono sempre state le razze (riusciranno mai, gli Stati Uniti, a uscire completamente dall’ombra del loro passato schiavista?) e le classi, tanto più presenti nella vita quotidiana quanto più negate nelle omelie sul “sogno americano” e il cosiddetto “crogiuolo americano”, il melting pot che avrebbe dovuto fondere armoniosamente fra di loro tutte le classi e le razze nel paese.



E’ vero però che quest’anno è emerso qualcosa di nuovo: qualcuno ha cominciato a dire a gran voce che l’imperatore è nudo. Io adesso non ricordo bene che cosa sia successo al ragazzino di quella favola; ma rievocando oggi quell’apologo mi vien da pensare che i pretoriani nel corteo, allora, debbono essersi guardati di sottecchi, cercando di decidere se sollevare il ragazzotto e proclamarlo imperatore, o se invece prenderlo da parte e massacrarlo di botte. Sto parlando, evidentemente, di Donald Trump, per dire che la novità di quest’anno è l’accresciuta virulenza del linguaggio, da entrambe le parti (un altro opinionista del New York Times, meno raffinato di Brooks, conclude un suo recente articolo riferendosi ai bianchi cristiani come a “quella gente che il signor Trump ha portato allo scoperto” — manco si trattasse di esseri inferiori acquattati fra le tenebre).



Dagli e dagli, la virulenza linguistica può portare alla violenza (“la lingua non ha l’osso, ma può rompere il dosso”, dice un proverbio; e, se vogliamo un linguaggio più serio, pensiamo all’Epistola di Giacomo 3, 5-6). E’ una violenza che minaccia prima di tutto i candidati: Trump deve stare attento allo “stato parallelo” demo-repubblicano e al suo potenziale di provocare incidenti di percorso (al limite, pensiamo ai Kennedy), mentre invece la Clinton dovrebbe fare attenzione agli scatti di qualche folle isolato (tipo sparatoria a Ronald Reagan).  



Ma non si tratta solo dei candidati: tutti noi qui sentiamo la violenza che (come detto) può nascere dalla virulenza verbale. E’ anche per questo — per disinnescare la situazione esplosiva — che sono in aumento le dichiarazioni astensionistiche; o le intenzioni di voto a favore del Partito Libertario, finora virtualmente invisibile ma che adesso potrebbe giocare il ruolo del guastafeste; o le osservazioni che sembrano (soltanto) poetiche ma sono (anche) realistiche, come quella di una persona la quale mi scrive che ci dovrebbe essere un altro emendamento della Costituzione americana, oltre a quello famoso che copre la libertà di parola: un emendamento sulla libertà di silenzio. Beh, almeno il caldo agostano qui a New York è finito, e speriamo nelle pacificanti brezze di settembre.