Sullo sfondo delle possibili strategie in Medio Oriente di Russia, Stati Uniti ed Europa, di cui al precedente articolo, si vorrebbe qui tentare un’analisi di obiettivi e strategie attribuibili ai principali attori locali: Arabia Saudita, Iran e Turchia. Ciò permetterebbe forse di inquadrare meglio anche obiettivi e strategie sottostanti agli attacchi terroristici in Medio Oriente e in Europa.



La posizione dell’Iran sembrerebbe la più semplice da descrivere, in quanto Paese a stragrande maggioranza sciita e che rappresenta circa il 40% degli appartenenti a questo ramo dell’islam. Naturale quindi il suo ruolo di guida nel mondo sciita, da cui conseguono il suo intervento in Siria, l’alleanza con gli Hezbollah libanesi e l’appoggio agli sciiti dell’Iraq e dello Yemen. Le differenze teologiche sono anche qui consistenti, con reciproche accuse di eresia, ma un elemento comune è la necessità di difendersi dalle discriminazioni delle maggioranze sunnite. Un punto di forza per Teheran, che permette di superare le diffidenze degli altri sciiti, per esempio di quelli iracheni. Molto accesa nelle sue denunce contro l’Occidente e nelle sue minacce verso Israele, la teocrazia che governa l’Iran dopo la cacciata dello scia è altrettanto netta nella condanna del terrorismo di matrice sunnita, che ha anche gli sciiti nel proprio mirino.



Una posizione, quindi, speculare rispetto a quella dell’Arabia Saudita, che appoggia invece varie forme di estremismo sunnita. Anche in questo caso le ragioni religiose si fondono con quelle politiche. I sauditi hanno potuto unificare l’Arabia grazie all’appoggio del fondamentalismo wahabita e questo connubio rimane alla base dello Stato, fortemente confessionale ma non una teocrazia come l’Iran, perché il potere rimane nelle mani della vasta famiglia reale. L’Arabia Saudita riveste un ruolo rilevante nel mondo musulmano in quanto ospita i luoghi santi dell’islam, non solo sunnita. Viene così giustificato il confessionalismo all’interno dello Stato e l’appoggio ai movimenti fondamentalisti sunniti al di fuori di esso. Almeno fino a quando non mettono a rischio il ruolo di guida religiosa dell’Arabia Saudita, come avvenuto nel caso dello stato islamico e del suo richiamo al califfato.



Malgrado il suo estremismo religioso, la ricchezza finanziaria derivante dal petrolio ha permesso all’Arabia Saudita, così come ad altri Paesi del Golfo, di diventare un partner importante dell’Occidente. In un certo senso, i sauditi sono più “apprezzati” in Occidente che in Medio Oriente, dove il loro ruolo è messo in discussione sia sotto l’aspetto religioso che politico, per esempio da Iran e Turchia.

Come l’Iran, anche la Turchia viene da un passato di Stato laico schierato con l’Occidente, ma la nuova Turchia di Erdogan ha continuato ad accentuare le proprie caratteristiche islamiche. Questo ha portato a un regime sempre più autoritario, con epurazioni verso gli elementi laici kemalisti e poi contro altri movimenti islamici, come quello di Gulen, cui viene addebitato il recente tentativo di colpo di Stato.

Sul piano esterno, si è verificata una decisa ingerenza in Siria e in Iraq, sia contro Assad che contro i curdi, con il chiaro obiettivo di partecipare attivamente all’assetto futuro di entrambi gli Stati. Una politica definita neo-ottomana che non può che mettere Ankara in contrapposizione con Riyadh.

Sono quindi numerosi i gruppi o movimenti che possono essere coinvolti negli attentati: curdi, estremisti dell’Isis, islamisti turchi, elementi di estrema sinistra, ancora presenti in Turchia. Ampio anche il numero di chi può trarre vantaggio da una instabilità turca: ancora i curdi, i sauditi, il governo iracheno a maggioranza sciita e l’Iran. Nel quadro descritto nel precedente articolo, una instabilità che riduca le pretese “imperialistiche” di Erdogan può servire in una certa misura anche a Russia e Usa. Chi ha più da temere da questa instabilità è senza dubbio l’Europa, esposta per di più al costante ricatto di Erdogan in materia di immigrazione.

E l’Isis? Si può dire con qualche sicurezza che finora l’Isis ha ottenuto supporto di varia natura da molti degli attori citati, ad eccezione di Russia e Iran. Ora però è diventato un pericolo per tutti e, non a caso, ha cominciato a perdere terreno, sia in Siria che in Iraq. Tuttavia, i suoi avversari sono divisi tra loro e ciò rende difficile un’azione comune che porti alla distruzione dello stato islamico. L’Isis rappresenta la punta più violenta del fondamentalismo sunnita, ma non ne è l’unica espressione e alla riduzione della sua area di influenza si contrappone una maggiore diffusione dell’ideologia estremista, anche tra le minoranze musulmane in Europa.

Iran, Turchia e Arabia Saudita sono Stati in cui l’islam ha un ruolo predominante e nei quali viene attuata la sua tipica compenetrazione tra religione e politica. Nel caso dell’Isis, il rapporto è rovesciato ed è l’islam che crea direttamente lo Stato, appunto lo stato islamico. Negli altri casi, gli aspetti religiosi e politici coesistono con altri aspetti, etnici o storici; l’Isis è multinazionale, meglio, “anazionale”, è la umma trasformata in Stato, da cui il rimando al califfato, storico, religioso e politico. In questa prospettiva è utile per l’Isis rivendicare attentati compiuti da altri, con l’obiettivo di destabilizzare territori, attualmente occupati da nemici, che devono essere riconquistati al vero islam. Gli atti di terrorismo sono strumenti tattici per raggiungere questo obiettivo strategico. Un’ipotesi che non sembra essere presa in considerazione dall’Occidente, che preferisce relegare gli attentati terroristici nell’ambito della criminalità. E sono atti criminali, ma funzionali al raggiungimento di un preciso obiettivo.

 

(2 – fine)