“Ed io non so chi va e chi resta”, scriveva famosamente Montale, con una profonda incertezza psicologica (e spirituale); ma che c’entra questo verso con il passaggio di potere che sta prendendo forma in questi giorni negli Stati Uniti quando noi lo sappiamo bene, chi è che va e chi è che resta? Dovremmo comunque sapere che una comparazione adeguata tra il discorso dell’uscente e quello del restante (o più precisamente, il subentrante) potrà essere compiuta, a rigore, soltanto alla fine del discorso inaugurale di Donald Trump, fra nove giorni, perché il discorso di addio alla nazione che abbiamo appena udito da Barack Obama ha una struttura retorica completamente diversa dalla conferenza stampa con cui Trump si è cimentato.
Eppure, al di là delle regole della retorica, si sono appena sovrapposte non tanto le parole (che contano quel che contano, come tutte le parole politiche) ma i modi di parlare (che è ciò che veramente importa) dei due uomini che ancora si considerano — sempre più illusoriamente — i più potenti al mondo.
Un minimo di confronto è inevitabile, e allora diciamolo subito: Obama è sempre stato eloquente, e Trump non lo sarà mai. Ma attenzione a non attribuire automaticamente un segno “più” all’eloquenza e un segno “meno” alla mancanza di essa. Obama è eloquente, vero, e l’ha provato anche in quest’ultimo discorso; solo che la sua eloquenza è un po’ opaca, un po’ ingessata, un po’ ore rotundo: insomma, un po’ troppo impostata. E non da oggi (il che sarebbe peraltro comprensibile, vista l’occasione cerimoniale del discorso). No: io ricordo ancora vividamente l’impalpabile ma percepibile atmosfera di lieve delusione che si diffuse nel campus di Columbia otto anni or sono quando, appollaiati dappertutto (sulle gradinate, sulle balaustre) guardavamo gli schermi televisivi giganti che trasmettevano da Washington il discorso inaugurale di Barack Obama. E quello, si badi, era un pubblico che non chiedeva di meglio che di entusiasmarsi. Ma già allora avevamo sentito che Obama si stava vestendo di una nuova spoglia, dopo gli ardenti discorsi con cui aveva strappato la vittoria a Hillary Clinton.
In breve: Obama stava diventando un “nero bianco”, per prendere a prestito il titolo del fortunato saggio di Norman Mailer del 1957, The White Negro (allora, prima di Malcolm X, si diceva ancora “negro”). Solo che qui i termini dell’equazione di Mailer vanno rovesciati: quel focoso romanziere e saggista (forse il saggista americano più vicino allo stile provocatorio di Pasolini) parlava del supposto mutamento per cui gli hipsters (altro termine ormai storico) bianchi, in preda ad angoscia esistenziale e sotto l’influsso soprattutto della musica jazz, tendevano a identificarsi in un certo senso — sosteneva iperbolicamente Mailer — come “neri che in realtà sono bianchi”.
A Obama, invece, fin dall’inizio è successo il contrario: è diventato un “bianco che in realtà è un nero” (ed era il prezzo da pagare per essere accettabile come presidente). Cambiamento facilitato dal fatto che Obama, come tutti sanno, mescola in sé l’eredità delle due razze. Ma qui non si parla di razze bensì di linguaggio: quello che si era già avvertito più o meno subliminalmente, da quegli anni lontani nel campus di Columbia, è che Obama aveva iniziato a guidare con il freno a mano — aveva cominciato a reprimere la “negritudine” della sua espressione.
Trump invece, parla come mangia: e non parlo di quelle battutacce che ormai sono scomparse dal suo repertorio (è questo il prezzo della sua, ancora relativa, accettabilità presidenziale); parlo di un discorso semplice e diretto, il discorso con cui si parla tra amici; il discorso che era stato di Bossi e che adesso è di Grillo. Sono sfumature, certo: ma sarà bene abituarcisi, perché definiranno lo stile della presidenza Trump. Come la ripetizione pari pari, per rafforzare un concetto nel modo più semplice possibile: i suoi collaboratori hanno fatto “cose splendide — cose splendide”; “David è fantastico — fantastico”. O anche il linguaggio della morale di tutti i giorni, piuttosto che delle elucubrazioni etiche: la pirateria informatica “è una brutta cosa, e non bisogna farla”. E così via. Queste (ripeto) non sono piccolezze: sono gli effetti subliminali che decidono, in buona parte, del rapporto fra il leader e la popolazione.
Ma che cosa c’entra con tutto ciò il “chi va e chi resta”? Beh, agli inizi della presidenza Obama era molto forte, soprattutto nella popolazione nera, il timore dei pericoli di assassinio che correva il primo presidente nero degli Stati Uniti. Ma adesso Obama è sopravvissuto, è ancora giovane e vigoroso: insomma, con ogni probabilità, “resta”. Contro Trump invece si è scatenata una campagna (avvertibile anche nel tono stridulo delle domande nella conferenza stampa di oggi) non semplicemente di opposizione o contestazione, ma di vera e propria delegittimazione. E ogni tentata delegittimazione porta con sé il pericolo della violenza.