Chissà come si sarà sentito un nativo americano (gli indiani, i pellerossa, insomma quelli che vivevano nel Nord America da secoli prima che arrivassero l’uomo bianco e l’uomo nero) nel sentire il discorso d’addio che Barack Obama ha pronunciato l’altra sera. Il primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti non ha mancato di citare “i pionieri che si sono diretti a Ovest” e “gli schiavi che coraggiosamente hanno costruito il percorso verso la libertà”. Ha anche citato Atticus Finch, il protagonista de Il buio oltre la siepe, avvocato bianco che difende un nero perseguitato. Non ha citato i nativi però, vittime di un genocidio che in un paio di secoli ridusse il loro numero di circa l’80, alcuni dicono anche il 90 per cento: nel 1890, quando terminò l’ultima guerra indiana, dei diversi milioni che erano, ne erano sopravvissuti circa 250mila. Perché?



Ha pianto Barack alla fine del suo discorso, ha pianto la figlia che era presente (l’altra era a casa a studiare per un esame, ma non ha pianto Michelle), piangevano in tanti il giorno dopo sui social network: “non avremo più un presidente così”. E’ vero: Obama, come dicono gli americani, è stato il presidente più cool dai tempi di JFK (non ci voleva molto, visti i successori), giovane, carismatico, affascinante, spiritoso, alla mano, ha rilanciato il sogno (illusione?) americano alla grande. Un’immagine costruita alla perfezione, quasi meglio di Meryl Streep.



Ha elencato i successi che ha ottenuto nei suoi due mandati: “Se avessi detto otto anni fa che l’America sarebbe riuscita a invertire la recessione in cui era, a riavviare la nostra industria automobilistica, a dar vita al più lungo periodo di creazione di posti di lavoro nella nostra storia… se avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo cubano, fatto chiudere il programma di armamento nucleare iraniano senza sparare un colpo, eliminare la mente degli attacchi dell’11 settembre, se avessi detto che avremmo vinto la battaglia dell’uguaglianza dei matrimoni, e garantito il diritto di assicurazione sanitaria per altri 20 milioni di concittadini, avreste detto che volevamo fare troppo. Ma l’abbiamo fatto”.



Indubbiamente. Non ha però citato la disgraziata politica estera delle sue amministrazioni (a parte l’uccisione di Osama bin Laden, più una vendetta che un risultato significativo nella lotta al terrorismo). Politica estera che ha sostenuto le primavere arabe senza capire e sapere nulla della realtà del mondo islamico e che hanno portato a una delle più gravi sciagure umanitarie della storia e al rischio – ancora intero – di terza guerra mondiale scatenando il terrorismo nel mondo; che ha sostenuto la parte sbagliata, quella fondamentalista e stragista, nel conflitto siriano minacciando una escalation nucleare mondiale quando le navi americane stavano per bombardare Damasco (fermate grazie all’intervento del papa, così come un altro papa, Giovanni XXIII, fermò la guerra nucleare durante la crisi dei missili di Cuba). 

Non ha citato il livello di guerra fredda con la Russia così alto come non avveniva da quando c’era ancora il Muro, con continue provocazioni nei confronti di un paese, la Russia, che non accetterà mai il tentativo di essere emarginato dalla scena mondiale, anche qui con un’ignoranza di prospettiva storica e diplomatica senza uguali. Non ha parlato delle minacce di sospendere i fondi economici a tutti quei paesi africani che non vogliono riconoscere i matrimoni omosessuali come ha fatto l’amministrazione Obama più volte.

Non ha detto che i 20 milioni di nuovi assicurati alla sanità hanno fatto salire il prezzo delle assicurazioni per tutti gli altri così tanto, che in molti oggi non se le possono più permettere; non ha detto delle minacce per  costringere gli enti religiosi a pagare le spese di aborto ai dipendenti. Non ha detto infine che lascia non solo un mondo insanguinato dalla morte di decine di migliaia di donne e bambini per sua evidente responsabilità, ma anche un’America spaccata in due, regalata alla parte più bigotta e conservatrice proprio per la sua ostinazione a perseguire politiche divisorie (come minacciare di sospendere i fondi federali sanitari ed economici a quegli stati che non gradiscono i gabinetti unici per uomini, donne, trans). Mentre, con il primo presidente afroamericano della storia, non si assisteva in America a uno scontro e a una divisione razziale così devastante dagli anni Sessanta.

Tant’è. La speranza è che il prossimo presidente degli Stati Uniti sia finalmente un nativo americano.