Da aprile 2016, mese dell’insediamento del Governo di unità nazionale, la situazione a Tripoli non è mai stata del tutto stabilizzata, dunque non sorprende che periodicamente ci siano delle rivendicazioni, più o meno credibili, per il potere ed il conseguente controllo della città. E’ in questo contesto che va inquadrato il tentativo di colpo di Stato messo in atto giovedì da parte di Khalifa Ghwell. 



Gli analisti che sostengono l’impossibilità effettiva di Fayez Al Serraj di controllare tutto il territorio, capitale compresa, non sbagliano. Quello che bisogna tenere in considerazione è la natura della Libia, caratterizzata da una realtà clanica multidimensionale attraversata da problemi politici e sociali complessi che non possono avere una soluzione unidirezionale. 



Superato, almeno apparentemente, l’ostacolo dello stato islamico radicatosi nella mezzaluna petrolifera con capitale Sirte, il governo di Serraj ha dimostrato come congiuntamente con un supporto esterno la Libia possa far fronte alle problematiche di sicurezza interne. 

La battaglia di Sirte non è stata certamente uno dei fiori all’occhiello della disciplina militare moderna; per mesi alcuni piccoli quartieri sono rimasti sotto il controllo dei miliziani islamici, ma ciò non toglie che la sua liberazione sia un fatto importante. Non è possibile dire altrettanto bene dell’operazione Dignità lanciata ormai oltre un anno fa dal generale Khalifa Hafar, che si presenta come uomo di punta della Libia, in opposizione a Serraj ma che ancora stenta a liberare Bengasi, nonostante i numerosi aiuti militari esterni. 



Il reale potere di Serraj non è effettivamente in grado di gestire le numerose crisi interne al paese e l’attuale presidente non appare un leader di peso e capace di influenzare l’opinione pubblica.

Tuttavia, nonostante le numerose difficoltà che il governo di unità nazionale deve affrontare, non è detto che Serraj non possa essere l’uomo giusto per la Libia. Sarebbe impossibile in soli nove mesi debellare tutti i problemi del Paese annullando ogni rivendicazione clanica o tribale; nemmeno Khalifa Haftar potrebbe unire tutte le fazioni, come molti vorrebbero far credere. Il generale si è infatti guardato bene dal mettere mano al problema del sud della Libia, vero marasma di traffici illeciti e fonte di instabilità perpetua per tutto il Paese; questo nodo si potrà affrontare solo con un piano multidimensionale che presenti una nuova via per il sud, indirizzandolo verso la stabilizzazione economica e dunque sociale. 

L’ambasciatore Giuseppe Perrone, appena insediatosi, ha subito smentito un tentativo di colpo di Stato ad opera delle esigue milizie fedeli all’ex premier tripolino Ghwell, che hanno occupato per alcune ore diversi uffici ministeriali approfittando dell’assenza del premier riconosciuto Serraj, recatosi al Cairo in visita dal presidente Al Sisi. 

E’ risaputo come Ghwell abbia guidato uno pseudo-governo appoggiato dai partiti vicini ai Fratelli musulmani, evidentemente di stampo islamista. Un rafforzamento del potere di Serraj in concomitanza alle già severe sanzioni internazionali potrebbe minare dalle fondamenta la presenza degli islamisti nella regione. Non è dunque un caso che Ghwell non abbia mai riconosciuto formalmente il governo di accordo nazionale, vista la sua propensione ad istaurare un’altra forma di governo a suo dire meno incline ad assecondare le vicissitudini internazionali. E la riapertura dell’ambasciata italiana che, come si è detto, supporta le politiche del Governo Serraj, sembra un valido motivo per far sentire la propria presenza attraverso un atto sovversivo. 

A complicare lo scenario della capitale, la presenza di milizie dalla natura più o meno variegata, come la Brigata dei Rivoluzionari di Tripoli, guidata da Haithem Al Tajouri, che nelle ultime settimane si è scontrata duramente contro gli uomini di Salah Badi. Il quotidiano Libya Herald sostiene che proprio la Brigata dei Rivoluzionari di Tripoli abbia indetto una sorta di stato d’emergenza nella capitale senza averne però l’autorità materiale. 

Nonostante le numerose e complesse vicissitudini che si devono considerare sulla città di Tripoli, per la Libia la settimana appena trascorsa è stata tutt’altro che infruttuosa. La visita a Tripoli del ministro degli Interni Marco Minniti, in loco per discutere di una possibile soluzione condivisa al problema dei migranti che arrivano quotidianamente sulle coste nazionali, si è conclusa con intenti congiunti ed accordi bilaterali in fase di sviluppo. L’incontro sembra aver aperto ad una possibile risoluzione che prevede la stabilizzazione della Libia meridionale con l’aiuto del governo di Roma, non tanto attraverso l’invio di truppe ma con un supporto deciso alla ricostruzione del potere centrale di Serraj. In tutto questo non si esclude un ruolo rilevante dell’Eni, già ampiamente coinvolto negli affari del Paese.

L’accordo prevede forniture di motovedette e pattugliatori, apparati radar e droni per la sorveglianza, ma le autorità tripoline hanno già escluso ogni ipotesi di attività di pattugliamento congiunto e di interdizione nelle acque territoriali libiche. 

L’Italia ancora una volta può dimostrare che il meglio delle missioni diplomatiche e militari si ottiene lavorando sinergicamente con il Paese interessato, assecondandone i ritmi politici e le richieste formali. Sarebbe certamente più facile, per Roma, imporre la sua presenza sullo scenario libico, adducendo come motivazione la risoluzione della crisi dei migranti, ma l’Italia in questo caso guarda ad interessi nazionali di più lunga gittata, proponendosi come risolutrice fidata e non presenza imposta. 

Con il Golpe di giovedì sono emerse più ombre che certezze sulla nuova Libia, un Paese che ancora per diverso tempo giocherà in modo asimmetrico una partita che dovrebbe vedere tutti dalla stessa parte.