La marcia di avvicinamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti continua ad assomigliare a un vero e proprio percorso di guerra, segnato dalle mine seminate dai suoi numerosi e irriducibili avversari nel tentativo di impedirne l’insediamento.
Si è cominciato con il fallito tentativo di convincere un numero sufficiente di grandi elettori a non votarlo, così da rinviare l’elezione al Congresso. Si è poi ipotizzata la possibile non convalida da parte del Congresso per l’asserita illegittima elezione di una parte del collegio elettorale. Anche questa ipotesi è andata in fumo e il vicepresidente uscente, Joe Biden, dopo aver certificato la validità dell’elezione di Trump, se ne è uscito con un “God save the Queen” che ha lasciato i commentatori molto perplessi.
Sono invece in continuo aumento gli attacchi a Trump sul “fronte russo”. Alle accuse di essere stato aiutato dagli hacker del governo di Mosca, che rimangono ancora non sufficientemente suffragate da prove, si sono aggiunte quelle di aver avuto in campagna elettorale sovvenzioni da Mosca.
Le indagini sono in corso e una parte centrale è svolta da una commissione del Senato presieduta dal senatore repubblicano John McCain. Lo stesso McCain ha passato all’Fbi in dicembre un rapporto ricevuto da fonte ignota in cui si afferma che Trump è sotto ricatto da Mosca per sue avventure a sfondo sessuale durante una visita nel 2013. Alla base di queste rivelazioni sembrerebbe essere un ex agente dell’MI6 britannico e tutta la storia ha i contorni di un film di spionaggio.
Il tutto è ovviamente smentito sia dal Cremlino che da Trump, ma certi suoi comportamenti e dichiarazioni in campagna elettorale e alcune “opacità” nelle relazioni con la Russia di suoi stretti collaboratori non aiutano.
Come afferma Massimo Teodori nella sua intervista al sussidiario, si parla addirittura di legami con la mafia russa, un’accusa decisamente grave che è difficile credere sia venuta fuori all’improvviso. La candidatura di Trump è stata pesantemente ostacolata all’interno del suo stesso partito ed è strano che, anche da parte dei democratici, si sia parlato solo di un “tirapiedi” di Putin. Forse si era talmente convinti della vittoria di Hillary Clinton da lasciar perdere, ma ora le accuse sono molto più gravi ed è netta la sensazione che si tenda ad avviare una procedura di impeachment.
Un’ipotesi questa pericolosa non solo per gli Stati Uniti, perché un presidente americano che inizia il suo mandato sotto questa minaccia rende ancor più rischiosa una situazione internazionale estremamente critica come quella attuale.
I primi risultati si stanno già vedendo, con un cambiamento di toni nei confronti della Russia dello stesso Trump, come traspare da alcuni passaggi della sua recente conferenza stampa. Ancor più nette le dichiarazioni di membri del suo futuro governo, come Mike Pompeo, candidato alla guida della Cia, e il generale James Mattis, designato a capo del Pentagono, che hanno definito la Russia “una minaccia” per gli Stati Uniti e la Nato.
Queste dichiarazioni, fatte durante le udienze al Senato per la loro conferma a queste cariche, possono essere state influenzate dal tentativo di persuadere i “falchi” antirussi. Rimane tuttavia il fatto che rappresentano una pubblica presa di distanza dalle posizioni espresse ripetutamente dal presidente eletto e gettano ulteriore incertezza sulle effettive strategie della nuova amministrazione.
Ne ha approfittato subito il presidente turco, il cui portavoce ha accusato gli Stati Uniti di sostenere organizzazioni terroristiche in Siria, con riferimento alla coalizione denominata Forze Democratiche Siriane, in cui esercitano un forte ruolo i curdi del Ypg. Secondo Ankara, costoro sono una derivazione del Pkk, il partito rivoluzionario curdo in Turchia, considerato un’organizzazione terroristica anche da Usa e UE, ma sia Ypg che i comandi americani negano questi legami.
Il ministro della Difesa turco ha detto di sperare che il nuovo presidente americano corregga gli errori della passata amministrazione, ma il candidato Segretario di Stato, l’ex capo della Exxon Rex Tillerson, ha definito i curdi siriani “i nostri più grandi alleati”. Ha però aggiunto che occorre riprendere una forte collaborazione con la Turchia, attribuendo all’assenza americana nella regione il fatto che Erdogan si sia dovuto appoggiare a Russia e Iran.
Forse la speranza che la politica estera americana in Medio Oriente diventi più lineare e magari più sensata è destinata, purtroppo, a rimanere uno wishful thinking, un pio desiderio.