Troppe le ambiguità del presidente-sultano Erdogan in questi ultimi anni per dubitare dello scenario in cui si inserisce quest’ennesima strage in Turchia: nella più europea delle città turche.
Le truppe di Ankara ferme e colpevolmente inerti in occasione degli attacchi Isis contro i villaggi curdi ai confini con la Siria sono l’immagine emblematica di quanto il leader turco abbia concesso negli ultimi tempi al radicalismo islamico sunnita nell’illusione di poter gareggiare con i vicini sauditi nel ruolo di apprendista stregone delle complicate alchimie tra wahabiti, salafiti e Fratelli musulmani.
Le cento sigle dell’estremismo sunnita che hanno flirtato a cavallo tra Medio oriente e Nordafrica con il governo ed i servizi segreti turchi, hanno reagito con ferocia al capovolgimento di fronte che ha visto il riavvicinamento di Erdogan con Putin. E vedono in modo ancor più temendo che Ankara normalizzi nel tempo i suoi rapporti con Teheran e l’esecrato universo sciita.
Gli ultimi due attentati — uccisione dell’ambasciatore russo e strage in discoteca poche ore dopo l’approvazione della tregua in Siria da parte dell’Onu su iniziativa di Russia e Turchia — hanno motivazioni fin troppo esplicite.
I troppi equivoci con la politica dell’amministrazione Obama, altrettanto equivoca forse anche in occasione del tentativo di colpo di Stato patito dal leader dell’Akp, hanno determinato una progressiva perdita di ascendente nel complicato quadro euro-mediterraneo. Compromessi i rapporti con l’Egitto per l’appoggio dato ai Fratelli musulmani, il governo turco ha perso influenza tra i vicini, colpito ripetutamente dalla strategia del terrore e logorato dallo scontro secolare con i curdi. E la nuova sintonia con i russi appare a larghi strati dei magmatici ambienti estremisti interni davvero troppo da poter digerire.
Le centinaia di morti nel 2016 appaiono tragico presagio di un tempo di conflitto che nel suo protrarsi non potrà che avere gravi conseguenze per l’intero scacchiere mediorientale. Un’alterazione della chiave geopolitica che ha visto la Turchia protagonista degli ultimi decenni non sarà insomma indolore. Bene farebbero i paesi europei a preoccuparsene e a muoversi con sollecitudine e determinazione, perché il gigante neo-ottomano comprenda di non essere solo ma soprattutto di non poter fare da solo. L’eventuale destabilizzazione della Turchia aprirebbe la strada ad una nuova “guerra civile europea” per il suo tramite più naturale quanto terribile: i Balcani. Che certo non avranno da giovarsi dal dilagare delle milizie sunnite a cavallo tra Turchia e Kossovo.