Dell’inauguration-day di un presidente americano restano tradizionalmente agli annali un paio di frasi evocative del suo address. Non sempre: di Dwight Eisenhower si ricorda l’allerta sullo strapotere del “complesso militare-industriale” durante la Guerra Fredda, ma nel discorso d’addio. Di frequente lo speech del 20 gennaio si rivela a posteriori una promessa non mantenuta, benché quasi sempre vibri in modo autentico dello spirito del tempo nel luogo più avanzato del pianeta.



“Questo paese ha bisogno di azione, di azione ora” (Franklin Delano Roosevelt nel 1933, al culmine della Grande Depressione verso il New Deal). “Non chiedetevi cosa il vostro paese può fare per voi, ma cosa potete fare voi per il vostro paese” (la Nuova Frontiera disegnata da JFK nel 1961 per la democrazia statunitense). “Nella crisi odierna il governo non è la soluzione, ma il problema” (Ronald Reagan, 1981, contro lo Stato e per il Mercato). “Le comunicazioni e gli scambi sono globali, l’investimento è mobile, la tecnologia è quasi magica” (Bill Clinton nel 1993, all’alba dell’economia digitale e turbofinanziaria).



Dal testo pronunciato ieri da Donald Trump, dopo il giuramento davanti al Campidoglio di Washington, il New York Times e la Washington Post hanno scelto a caldo la stessa headline: “The american carnage stops right here and right now“, il massacro americano finisce qui e ora. Non sapremo mai se Trump e i suoi speechwriter abbiano davvero voluto costruito il discorso attorno a questa affermazione: a un affresco fosco di “madri e figli intrappolati dalla povertà nelle nostre città dell’interno”; di “fabbriche arrugginite”, di “crimine e droga” di un “sistema scolastico inondato di soldi, ma che spesso lascia i nostri giovani privi di conoscenze”. Un’America dove, ha ripetuto il 45esimo presidente, i “dimenticati” (i forgotten men and women) sono ormai la maggioranza (e per i quali – anche se Trump non lo ha detto – è improbabile che la nuova amministrazione cancelli subito in modo drastico l’assistenza sanitaria pubblica impiantata da Barack Obama).



La polemica storica contro l’élitismo globalista incarnato negli ultimi otto anni da Obama – ma in realtà rintracciabile fin dalla presidenza di Bush Sr – è stata comunque il filo rosso dell’intero discorso. “We, the citizens of America” – le primissime parole del discorso – è una citazione quasi letterale della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. Sicuramente non un fake da istrione televisivo, ma un incipit politicamente impegnativo: non sono un dittatore da avventure post-democratiche, la mia America rimarrà la più antica democrazia del mondo. Fondata da Padri a modo loro visionari, desiderosi di vivere bene nel loro Nuovo Mondo e stanchi dell’imperialismo britannico fatto di tasse e di regole “globali”. 

Un’America “patriottica”, nella quale – ora come allora – deve prevalere la “loyalty” (un po’ “legge e ordine”, un po’ “rispetto fra cittadini”) e “non può esservi spazio per il pregiudizio” (il massimo che Trump si è consentito per tenere a bada le accuse di razzismo “suprematista”).

E’ un’America che ha voluto punire nelle urne “un establishment che proteggeva solo se stesso, non i cittadini o il Paese. Le loro vittorie non erano le vostre vittorie. E mentre loro celebravano nella capitale del nostro Paese, c’era poco da festeggiare nelle famiglie che soffrivano in ogni luogo del Paese”. Un po’ di tradizionale populismo delle praterie, certo, contro i “politicanti di Washington”: il James Stewart da Oscar in Mr Smith va a Washington di Frank Capra.

Però c’è stato dell’altro nelle parole con cui il cittadino Trump – miliardario newyorchese – è entrato alla Casa Bianca: “Oggi non si celebra solo un passaggio di poteri da un’amministrazione a un’altra, ma una restituzione di potere da Washington a tutti voi”. Siamo sempre nelle “distese assolate della libertà americana” (Richard Nixon, 1969) ma vi si può scorgere un’intuizione-aspirazione: nel we, nel “noi” Trump va a caccia di  una nuova sintesi orizzontale fra Midwest industriale e Silicon Valley, fra Wall Street e Hollywood passando per “le pianure del Nebraska”(e vedremo presto se Marc Zuckerberg vorrà giocare la stessa scommessa partendo da Facebook verso le presidenziali 2020).

Il passaggio che ha associato il minimo della retorica con la massima comunicazione programmatica è parso la sintesi della strategia economica: “Seguiremo due semplici regole: compra americano e assumi americano (buy american and hire american)”. La Cina è avvertita, e anche la Ue: la Trumponomics sarà protezionista e competitiva. Meno semplice, sicuramente, Trump è stato nel delineare la politica di bilancio a sostegno del “rebuild” americano. Come nel victory speech di novembre ha insistito sulla ricostruzione delle infrastrutture (un classico approccio keynesiano), e nel contempo ha lamentato che troppi “trillions“, troppe migliaia di miliardi di dollari americani – siano stati spesi lontano dall’America, svantaggiando i “workers” e la “middle class” statunitense. Sono stati impiegati soprattutto per “la difesa dei confini di altri paesi”: i membri europei della Nato dovranno cominciare a farsene una ragione.

Ciò che sta a cuore a Trump è in ogni caso la rinascita americana ed è tenendo questa rotta che la nuova Casa Bianca deciderà su “tax and trade“. E’ certamente su questo punto che The Donald è stato sbrigativo ai limiti dell’ambiguità: senza dire a chi aumenterà o diminuirà la pressione fiscale ha tenuto assieme l’archiviazione delle politiche di libero scambio con l’Europa e l’Asia con il tema ben più insidioso di un ritorno alla deregulation interna per banche e Wall Street (Fed, quantitative easing, tassi zero, etc? Vedere alla voce “establishment”).

Al ruolo internazionale di un’America neo-isolazionista, riconcentrata su se stessa, Trump ha dedicato comprensibilmente, forse volutamente poco spazio. L’unico obiettivo dichiarato è lo “sradicamento del terrorismo islamico” e attorno a questa strategia “verranno rinforzate vecchie alleanze (Israele, ndr) e formate di nuove”. Naturalmente gli Usa cercheranno sempre i loro partner nel “mondo civilizzato”, ha precisatoTrump, lasciando tuttavia nel vago se la Russia di Putin o la Cina vi siano ricomprese, se vi rimarrano paesi coma l’Arabia Saudita o se l’Iran ne sarà nuovamente espulso. Civilizzata è, sulla carta, anzitutto l’Europa: ma nel Trump-pensiero sembra quella da cui l’America “patriottica” si è un giorno liberata. Con un “discorso” che cominciava così: “We, the people of the United States”.