Il discorso d’insediamento del presidente americano deve avere un requisito fondamentale: essere vacuo; e in quella democrazia tradizionale e conservatrice che sono gli Stati Uniti, tutti i presidenti finora, Donald Trump compreso, hanno rispettato questo requisito. Perché ogni sorpresa, nel contenuto così come nella forma, avrebbe effetti destabilizzanti, e Trump in particolare non ha certo bisogno di creare destabilizzazione. Ci stanno già lavorando abbastanza i suoi avversari intenti alla delegittimazione, dopo che sembrano svaniti i sogni del procedimento di destituzione (ovvero, per chi vuole parlare americano, impeachment). Ma vacuità non è sinonimo di nullità o vuoto assoluto: quando il neo-presidente recita le poche pagine compilate dai suoi “scrittori”, lo deve fare con energica convinzione — e Trump l’ha fatto; e deve avere introdotto nel copione già scritto qualche espressione che ricordi le frasi e i concetti che l’hanno spinto alla vittoria — e sembra chiaro che questo è puntualmente accaduto.
Dopo tutto, era l’ultima occasione di Trump per farsi veramente sentire prima di essere imbalsamato, come ogni presidente prima e dopo di lui (la tradizione americana è implacabilmente coerente). Da quel momento in avanti infatti l’uomo politico (o donna) che ha vinto le elezioni diventa una sorta di mummia o totem o icona o parafulmine (si scelga pure l’immagine preferita). Non è più lui, non è più pienamente individuo; bensì è il punto — centrale, è vero, ma pur sempre un punto — di faticoso equilibrio e incessante compromesso tra personalità e gruppi e interessi in conflitto. Se ci riesce, sopravvive; se no, rischia letteralmente la vita (il precedente è ben noto).
Il suo ultimo momento di piena presenza in quanto individuo politico, per ogni neo-eletto presidente, è quella dilazione di otto-nove settimane che intercorre fra l’elezione e l’insediamento (quello che si potrebbe chiamare le sursis, prendendo a prestito il titolo del romanzo di Jean-Paul Sartre che descrive l’attesa di un conflitto ben più grande di quelli di cui stiamo parlando). In quella dilazione o proroga di meno che Cento Giorni napoleonici il vincitore può essere ancora se stesso. E poi? Poi, comincia a correre davanti — non più dietro — alla valanga che egli stesso ha creato.
L’unica espressione del discorso di Trump che ha fatto sobbalzare è stata American Carnage: la carneficina o strage o massacro americano. Altro che American Dream! E comunque lui non si riferiva (come sarebbe stato giusto, ma troppo destabilizzante) alla carneficina scatenata dagli Usa in tutta una zona del mondo allo scopo di infliggere ai non-colpevoli una vendetta laterale per lo smacco subito nel settembre del 2001; parlava invece della — molto, molto più metaforica — carneficina interna che sarebbe l’effetto di inerzie e di politiche sbagliate del precedente governo.
Comunque, questa è stata l’unica zampata del leone. A parte il riferimento fortemente sillabato al “terrorismo islamico radicale” (quest’ultima frase, come si ricorderà, Donald aveva sfidato Hillary a sottoscriverla — cosa che naturalmente lei non fece — in uno di quei dibattiti pre-elettorali per cui i più sentenziosi giornalisti americani e i loro imitatori in Italia si erano affrettati a dire che lì Trump aveva “perso”; e infatti, si è visto). E a parte i tre (salvo errore) riferimenti a Dio e alla Sua parola. E a parte la ripresa del concetto di “movimento” (già apparso nei famosi dibattiti).
Ma allora — adesso che uno comincia a contarle — queste zampate ci sono state. E poi ci sono anche le (per dirla alla Roland Barthes) zampate-zero; come la grande assenza dal discorso del partito repubblicano. A proposito del movimento, si sono già notate certe somiglianze fra lo stile di Trump e il linguaggio di un certo comico italiano inizialmente sottovalutato; ma in questo caso bisognerà pur dire che l’italiano, con la sua idea di movimento anti-partitico, era arrivato prima (senonché, come mi disse una volta ironicamente un illustre collega universitario : “Voi italiani siete arrivati primi in un’infinità di scoperte e invenzioni; ma poi, quasi ogni volta, sembra che vi siate stancati e non le abbiate sviluppate”; sul momento rimasi piccato, ma ripensandoci dovetti concludere che quel professore non aveva poi tutti i torti).
Comunque, American Carnage: che titolo sarebbe, per un bel romanzo americano della prima metà del nostro millennio! Ma chi lo scriverà? Beh, non bisogna mai perdere speranza nella capacità degli intellettuali di assorbire le elezioni — e le loro lezioni. Dopo i primi e perfettamente comprensibili (siamo tutti umani) moti di esasperazione e disappunto elitari, ci sarà pure qualcuno, in qualche loft o scantinato di Manhattan — magari non lontano dalle Trump Towers — che comincerà ad abbozzarlo, questo romanzo politicamente eterodosso.