A sette mesi dal referendum di giugno, il tanto atteso discorso programmatico sulla Brexit del primo ministro britannico, Theresa May, è finalmente arrivato. La Brexit si farà senza se e senza ma (niente piedi in due scarpe, si esce), abbandono della giurisdizione della Corte di Giustizia Europea, controllo dell’immigrazione, uscita dal mercato unico europeo, sviluppo di piani commerciali con paesi extraeuropei: questi i punti chiavi del discorso di martedì.



Se da una parte May ha voluto in questo modo rispedire al mittente le critiche di coloro i quali le rimproveravano di non avere un piano sulla Brexit e di lasciare il Paese in una situazione di incertezza rispetto alla strategia di fondo con cui negoziare il processo di uscita dall’Ue, dall’altra (come notavano diversi commentatori sui quotidiani inglesi) non ha chiarito in modo definitivo né le modalià con cui mettere in pratica i suoi punti programmatici (per esempio, in che modo si intende controllare l’immigrazione? Secondo quali criteri?), né le motivazioni di fondo alla base di tali scelte.



Il tema è ovviamente molto delicato. May ha sgombrato ogni dubbio rispetto alla sua volontà di portare il Paese fuori dall’Unione “senza se e senza ma”, senza ripensamenti di ogni sorta e senza uscite “a metà”, ha identificato una serie di paletti non modificabili per il prossimo negoziato (abbandono della libera circolazione delle persone e controllo dell’immigrazione su tutti), ha detto chiaramente che un buon accordo è auspicabile da entrambe le parti (paventando, per esempio, l’ipotesi di creare un regime di bassa tassazione per attirare investitori stranieri nel caso in cui non si trovasse un accordo con l’Ue) e ha così sgombrato il campo da una serie di equivoci sul cosa accadrà (naturalmente dal punto di vista inglese; bisogna vedere poi cosa verrà fuori dal negoziato con i leader Ue). 



Coloro i quali si aspettavano invece una spiegazione, un chiarimento rispetto al come questo accadrà e sul suo perché sono rimasti delusi: al netto infatti della volontà espressa ripetutamente da parte del governo di non voler scoprire tutte le carte negoziali prima di sedersi al tavolo, in molti si aspettavano qualche delucidazione, qualche dettaglio in piuù rispetto alla modalità con cui mettere in pratica i 12 punti delineati dal primo ministro e, soprattutto, rispetto alle motivazioni di alcune scelte chiave quali l’abbandono del mercato unico e il controllo dell’immigrazione.

Non ci si vuole in questa sede concentrare su un’analisi comprensiva delle implicazioni del discorso, soprattutto a livello internazionale (analisi svolta ad esempio da Sergio Luciano su queste pagine): si vuole invece richiamare l’attenzione su tre aspetti prevalentemente legati alla politica interna al Regno Unito che possono aiutare a comprendere ulteriormente la complessità degli elementi in gioco e, conseguentemente, l’importanza che rivestirebbe una maggiore chiarezza e trasparenza rispetto ai criteri sottostanti gli obiettivi e le scelte (il cosa) delineati da May.

1) Rimane una certa ambiguità su quale sia esattamente il rapporto tra Brexit, volontà popolare e ruolo delle istituzioni (governo e parlamento). Vale la pena ricordare che la tanto citata “volontà popolare” emersa dal voto referendario (referendum di tipo consultivo, senza quorum e senza una soglia minima/massima per validare i risultati) si è espressa a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, aprendo di fatto il campo a un dibattito nel Paese (e in Parlamento soprattutto) sulle diverse modalità di uscita possibili e sulla nuova relazione con l’Ue (fuori dall’Unione ma dentro il mercato unico, uscita a 360 gradi, modello norvegese, ecc.): questo è quello che ci si aspetterebbe in una monarchia parlamentare qual è il Regno Unito. 

Tale dibattito (se c’e stato) è stato limitato. La decisione di perseguire un’uscita “dura” dall’Ue (“Hard Brexit”) è del primo ministro e del suo governo: in altre parole, il popolo si è espresso per uscire dall’Ue, il governo ha scelto questa specifica modalità di uscita, in modo autonomo e con limitato (finora) dibattito in Parlamento dove le opinioni sono contrastanti, anche tra i Tories. Per questo motivo, ci si sarebbe aspettato (e ci aspetterebbe quantomeno in futuro) qualche spiegazione in più da parte del governo sui vantaggi che tale modalità di uscita porterebbe al Paese: in altre parole, qual è il beneficio di uscire dal mercato unico? Perché ridurre l’immigrazione (che va ricordato è strategica i diversi settori economici chiave del Paese, vedere punto successivo)? Che tipo di relazioni intraprendere con paesi extraeuropei? Quali i benefici economici? Quali i rischi potenziali? Se risulta difficile offrire risposte certe a tali domande, sarebbe opportuno delineare almeno i benefici attesi, i possibili vantaggi, i miglioramenti dal punto di vista sociale, economico, culturale, ecc. che la Brexit porterebbe al Regno Unito e ai suoi abitanti secondo il governo.

Assumendo logicamente che se si cambia lo si fa per migliorare, e non per peggiorare, sinteticamente si può dire che il piano delineato da May ha fissato degli obiettivi e tratteggiato un futuro radioso per il Regno Unito, senza però spiegare chiaramente il perché di tali scelte e il motivo di tanto ottimismo.

2) Il tema dell’immigrazione. Finora in UK la stragrande maggioranza del dibattito sulla Brexit si è soffermato sui temi dell’economia e dell’immigrazione (che sono poi strettamente correlati). La riduzione dell’immigrazione è stata anche uno dei cavalli di battaglia di molti sostenitori dell’uscita dall’Ue nella campagna pre-referendum. Per questo motivo l’obiettivo di ridurre l’immigrazione e “take back control of our borders” (riprendere in mano il controllo delle frontiere) è diventato cruciale per il governo. Anche qui però, al di là della retorica e degli slogan propagandistici, occorre fare un po’ di chiarezza. Innanzitutto va detto che in UK il dibattito sull’immigrazione riguarda persone straniere che lavorano, piuttosto che disoccupati o persone in cerca di lavoro (tra l’altro, dati recenti dell’equivalente inglese dell’Agenzia delle entrate italiana mostrano come nel periodo 2013/14 gli immigrati europei in UK abbiano pagato 2,54 miliardi di sterline di tasse e previdenza sociale in più rispetto a quanto hanno ricevuto in termini di sussidi e assegni familiari).

Semplificando (ma nemmeno troppo) un tema complesso si può fare il seguente ragionamento. Per i lavori cosiddetti “high skilled” (alta qualificazione) il mercato del lavoro è globale per definizione: nell’ambito finanziario, medico, dell’alta tecnologia, educativo (università), ecc. un datore di lavoro cerca di assumere il miglior candidato possibile (e disponibile) nel mercato globale. Il problema non è la nazionalità, ma la qualità dei candidati. Avendo il Regno Unito sviluppato alcuni settori di eccellenza in ambito finanziario (si pensi alla City di Londra, alle banche, all’alta finanza), medico, tecnologico, educativo (diverse università in UK sono tra le migliori al mondo), etc., il fatto di attrarre talenti da tutto il mondo dovrebbe essere visto come un elemento estremamente positivo, in termini di prestigio ma anche in termini dei benefici e delle ricadute economiche, sociali e culturali per il Paese nel suo insieme. Per i lavori cosiddetti “low skilled” (bassa qualificazione) la situazione è differente: l’Osservatorio sull’immigrazione dell’Università di Oxford in uno studio pubblicato lo scorso dicembre evidenzia come la percentuale di occupati stranieri sul totale sia passata dal 7,2% nel 1993 al 16,7% nel 2015, ma, in alcuni settori prevalentemente “low skilled”, tale crescita è stata molto più marcata (42% in impianti di lavorazione, 35% in pulizie e collaboratrici domestiche, per esempio).

Sebbene dunque un aumento dell’immigrazione sia reale, bisogna capire il perché: banalmente c’e immigrazione perché ci sono lavori disponibili e la forza lavoro locale non è in grado di soddisfare la domanda per una serie di motivazioni, tra cui: paghe troppo basse, generoso sistema di sussidi pubblici (grazie ai quali in alcuni casi ci si troverebbe a guadagnare meno lavorando che rimanendo con i sussidi), interesse limitato per alcune tipologie occupazionali, ecc.

In entrambi in casi (“high skilled” and “low skilled”) l’immigrazione risulta essere un sintomo piuttosto che la causa del problema. Riducendo l’immigrazione si può eliminare il sintomo (ridurre il numero di lavoratori stranieri) senza affrontare il problema (per esempio, aumentando i salari minimi, incentivando l’impiego dei disoccupati intervenendo sul sistema di sussidi pubblici, sviluppando programmi di training specifico per alcuni occupazioni, ecc., in modo da favorire l’occupazione locale). Prendiamo l’esempio del sistema sanitario del Regno Unito: il 10% dei dottori è composto da immigrati provenienti da paesi dell’Ue. Pensare di poter fare a meno di tale forza lavoro, almeno nel breve medio periodo (Jeremy Hunt, ministro della Salute, ha recentemente dichiarato di voler formare un maggior numero di dottori locali, ma questo richiederà tempo, investimenti, decisione politica, ecc.) non è ipotizzabile. 

3) Il caso delle Università. La Brexit potrebbe avere effetti particolarmente negativi in questo settore (in UK circa il 6% degli studenti proviene da paesi Ue, così come il 18% del personale accademico di ricerca e insegnamento). A seconda infatti di come sarà sviluppata (conferma ulteriore della necessita di maggiore chiarezza) è plausibile ipotizzare una situazione in cui sia più difficile per le università assumere personale dall’Ue, accettare studenti dall’Ue, partecipare a progetti di ricerca internazionale, accedere a fondi di ricerca europei, sviluppare collaborazioni internazionali, ecc.

Occorre ricordare che il settore universitario è uno dei fiori all’occhiello del Regno Unito, non solo per il suo prestigio riconosciuto a livello internazionale, ma anche per il suo impatto economico interno (un recente studio di Universities UK ha evidenziato come le università abbiano generato 73 miliardi di sterline di output per l’economia e contribuito circa al 3% del Pil nell’anno 2014/15). Per quali ragioni si corre il rischio di compromettere pesantemente un settore così positivo del tessuto economico e sociale britannico? Il rischio è reale? Domande per ora senza risposta.

In conclusione, in questa fase si può dire che il punto essenziale per il Regno Unito sia capire che cosa effettivamente la Brexit possa implicare, quali siano le strategie e gli obiettivi, i benefici attesi, i rischi, le sfide, ecc. Risulta quasi artificioso dibattere se la Brexit sia giusta o sbagliata (alla luce tra l’altro di un consenso diffuso per il quale l’Unione europea necessiti di riforme) senza sapere di cosa effettivamente si tratti: il discorso di May lascia parecchi interrogativi aperti in proposito.