Dopo la caduta del Muro si diffuse la sensazione che ormai il mondo dovesse fare i conti con una sola superpotenza: gli Stati Uniti. La Russia post-sovietica era ridotta in un angolo e la Cina si pensava potesse essere tenuta a bada con quel tacito contratto per il quale l’esportazione di prodotti a basso costo cinesi trovava la sua controparte nella consistente sottoscrizione da parte di Pechino di titoli di Stato americani. 



La strategia di contenimento della Russia veniva rafforzata dall’allargamento dell’Unione Europea agli Stati ex satelliti dell’Urss e il mantenimento della Nato, malgrado la fine della guerra fredda, assicurava il predominio militare degli Stati Uniti e l’affermazione a livello globale della “pax americana”. Le condizioni in cui versa attualmente il mondo evidenziano come si trattasse di un’illusione, che molti Paesi stanno pagando in modo tragico.



L’errata politica estera dei due mandati di Obama ha contribuito ad aggravare una situazione già critica. Non si è riusciti a pacificare l’Afghanistan, l’Iraq è costantemente a rischio di una guerra civile o di una sua spartizione, difficilmente pacifica, e si sono aperti due nuovi drammatici fronti, la Siria e l’Iraq, cui si aggiunge la disastrosa guerra in Yemen, senza dimenticare i numerosi e spesso dimenticati conflitti nel continente africano. Il tentativo di isolare la Russia non ha avuto un grande successo e, anzi, il suo ruolo è diventato sempre più determinante nel ginepraio mediorientale. Né le sanzioni o il linguaggio bellicoso, cui si è unita l’Unione Europea, hanno impedito a Mosca di riannettersi la Crimea, mentre l’Ucraina sotto protettorato americano sta sempre più affondando.



Nonostante diversi problemi, la Cina continua con il suo regime “capital-comunista” a condizionare l’economia mondiale, compresa quella americana, ma sta soprattutto mostrando sempre più la sua faccia neoimperialista. Come, d’altro canto, la Russia di Putin, a dimostrazione del fallimento della strategia americana.

L’intervento a gamba tesa di Obama durante la sua ultima visita a Londra non ha impedito che vincessero i sostenitori del leave, con la conseguente accresciuta instabilità del resto dell’Unione Europea. Né migliore fortuna hanno avuto i due progetti economici a sfondo geopolitico, TPP e TTIP, fortemente sostenuti da Obama come strumenti di coesione dei due blocchi a guida americana, uno sul Pacifico e l’altro sull’Atlantico. Entrambi i trattati hanno dovuto affrontare anche una decisa opposizione interna, paradossalmente soprattutto tra i democratici.

In questo quadro sono forse da rivedere le definizioni addossate a Donald Trump: isolazionista, protezionista, populista. Questi aspetti sono senz’altro presenti e nella persona e nelle posizioni politiche del nuovo presidente, ma è opportuno prendere in considerazione anche un’altra prospettiva, cioè una sua pragmatica presa di coscienza della situazione reale rispetto alle posizioni strumentalmente ideologiche del suo predecessore.

Gli Stati Uniti rimangono senza dubbio la più grande potenza, ma non sono più l’unica, come nell’illusoria ipotesi descritta all’inizio, e Trump sembra prenderne atto, sia pure con i toni anche irritanti che gli sono propri. Risulta così comprensibile il suo invito a una riconsiderazione della Nato (si pensi solo al ruolo ambiguo al suo interno della Turchia di Erdogan) e ragionevole, anche se sgradito, il suo richiamo a una maggiore partecipazione degli altri membri, senza più contare solo sull’ombrello americano. Altrettanto realistica appare la sua volontà di collaborare con la Russia, considerandola non più un nemico ma un partner per la soluzione dei conflitti in Medio Oriente, per risolvere la questione ucraina ed evitare il sorgere di altre contese in Europa e per arginare l’espansione aggressiva della Cina.

A Trump viene rimproverata una certa indifferenza verso l’Europa, ma se per Europa si intende l’Unione Europea il disinteresse è del tutto giustificato, vista la completa assenza di una pur minima politica estera comune. Ogni Stato va per conto suo e c’è da chiedersi, per esempio, dove era l’Ue quando Francia e Gran Bretagna hanno attaccato la Libia per sottrarre all’Italia il petrolio libico. O vi è qualcuno che pensa si trattasse di un’operazione di salvaguardia della democrazia? Lo stesso si può dire per l’immigrazione, tema particolarmente caldo per il presidente americano.

E’ quindi pensabile che Trump applichi la sua politica di accordi bilaterali anche in Europa, saltando la tecnocrazia europea, ed è anche probabile che l’interlocutore privilegiato, piuttosto che Berlino o Parigi, divenga Londra. Per quanto ancora incerti possano essere i suoi esiti per l’economia britannica, è certo che il Brexit renderà la politica estera del Regno Unito ancora più indipendente e tesa a giocare un ruolo da protagonista. 

Tanto più che il panorama geopolitico si avvia ad essere caratterizzato dal confronto tra due “grandi potenze”, Usa e Cina, cui si deve aggiungere la Russia, e da una serie di potenze regionali non facilmente trascurabili. Sia pure su piani diversi, Regno Unito e Russia potrebbero attuare strategie internazionali a “geometria variabile”, che consentirebbero di mantenere un ruolo determinante, ruolo sempre più difficile invece per l’Unione Europea.

Sullo sfondo rimane il tragico problema dell’estremismo islamico, problema aggravato piuttosto che risolto dalla precedente politica americana. Su questo piano le prime proposte di Trump sembrano solo reattive e non consentono di individuare una precisa strategia, se non limitata a preservare gli Stati Uniti dalla minaccia. 

Se così fosse, si tratterebbe di una soluzione poco realistica, perché gli Stati Uniti non potrebbero ritirarsi improvvisamente dal mondo per chiudersi in sé stessi, neppure con il più isolazionista dei presidenti. E’ ipotizzabile un graduale disimpegno dal Medio Oriente, ma il pragmatico Trump sa bene che ogni vuoto viene inevitabilmente riempito e sarà interessante vedere a quali forze “amiche” passerà il compito di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno americano.