Se non fosse una cronaca orrenda fatta di 39 morti veri, in carne e ossa, sarebbe la trama perfetta per un romanzo thriller o addirittura un soggetto di fantascienza apocalittica. L’attentato della notte di Capodanno a Istanbul è infatti l’ennesimo frutto della politica da “apprendista stregone” di Recep Tayyip Erdogan, l’uomo che si illudeva di poter manipolare terroristi, estremisti e fanatici per farne le sue pedine, e che ora è sotto attacco (lui, indiretto; le vittime degli attentati invece no) da parte di quelle stesse forze oscure che ha prima fomentato e ora gli si rivoltano contro. 



Trama perfetta per un romanzo di fantascienza apocalittica, dicevamo. La parabola di un capo di Stato che contro i consigli di tutti punta a obiettivi ambiziosi, a qualunque prezzo e finisce travolto dalle stesse forze che ha suscitato illudendosi di poter manipolare. L’ha fatto notare sul Giornale, con la sua consueta lucidità, Gian Micalessin, uno dei pochissimi giornalisti oggettivi sulle questioni mediorientali che ha la nostra stampa, altrimenti ridotta a megafono delle narrazioni imposte da oltreoceano. Erdogan ha giocato a fare il “sultano” ed è finito sul letto di Procuste della sua stessa smisurata ambizione. Non è riuscito a capire che se vuoi giocare col fuoco finisci per scottarti. Ha blandito gli estremisti integralisti, li ha finanziati, ha portato avanti riforme reazionarie all’interno del suo paese, che un tempo era l’avanguardia del laicismo in Medio Oriente, ha appoggiato orde di terroristi in Siria ed Iraq mettendosi fianco a fianco coi veri deus ex machina di quelle rivolte, le petromonarchie del Golfo. Ha perfino cercato di sfidare la Russia, per fare il realista più realista del re. 



E là ha perduto. Costretta a più miti consigli dal potente vicino — il cui leader, Putin, non è certo un dilettante allo sbaraglio come Erdogan — la Turchia ambiziosamente neo-ottomana del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) è finita a dover rivedere le proprie posizioni geopolitiche nel giro di poche settimane. Ma chi sta dall’altra parte non è certo rimasto a guardare. Quando ti metti in affari con certuni il minimo che ti puoi aspettare, se sciogli il contratto, è di imbatterti in una serie di clausole vessatorie. E che la tua controparte le faccia scattare tutte. 



La pedestre narrazione delle cronache degli attentati che stanno sconvolgendo la Turchia è che si tratti dell’Isis. Basta che un terrorista urli “Dio è grande” (Allahu akhbar) perché d’ufficio parta l’equazione “azione terroristica = Isis”. Ma per far venire qualche dubbio basterebbe notare come il comunicato di rivendicazione sia stato scritto in turco e chi conosce le questioni mediorientali sa quanto sia profondissima e insanabile la rivalità fra turchi e arabi, e di come l’arabo sia la lingua imprescindibile per ogni fanatico integralista, che non rivendicherebbe mai un’azione “di guerra santa” con un comunicato in un’altra lingua.

La fossa di catrame in cui le ambizioni neo-ottomane di Erdogan stanno affondando è dunque molto più complicata: ci sono le tante sigle di “combattenti per la libertà” (si legga: terroristi autorizzati) che hanno devastato la Siria contro Bashar al Assad e che ora sono state tradite dalla svolta filo-russa di Ankara; ci sono i salafiti, che erano stati accarezzati, blanditi e illusi, e ovviamente i loro padroni, ricchissimi e armatissimi (il Qatar è il primo acquirente di ordigni bellici al mondo, per 17 miliardi di dollari, praticamente una manovra economica italiana); c’è la Nato, il cui vertice obamiano e nostalgico della guerra fredda ha preso come un frustata in faccia il giro di valzer di Erdogan con Putin; ci sono, last but not least, tutti gli uomini che Erdogan stesso ha piazzato nei posti che contano di polizia e servizi segreti per sostituire i quadri kemalisti, i nazionalisti laici della Turchia moderna che gli erano d’impaccio per le sue politiche integraliste e neo-ottomane. Gente che però non si è accontentata del cadreghino garantito dal sedicente Sultano. E che ora presenta il conto.