L’analogia con l’attentato al Bataclan di Parigi del massacro compiuto (39 morti e 69 feriti) alle 23.30 del 31 dicembre nella discoteca Reina, situata sulla sponda europea del Bosforo, nel cuore cosmopolita di Instanbul, aiuta meno di quanto si creda a capirne la complessità delle implicazioni, e dei suoi possibili effetti. 



Un attentato, nella scabrosa contabilità dei morti, prossimo al massacro allo stadio Besiktas, appena il 10 dicembre scorso, ma che ha ricevuto ben più attenzione sui media occidentali, per il luogo, l’occasione, e inizialmente (così sembrava in un primo tempo) per l’abito di Babbo Natale indossato dall’attentatore. E già questo doppio peso della notizia dovrebbe metterci in allarme sulla qualità delle attenzioni e delle analisi che stiamo dedicando in questi ultimi due anni alla Turchia di Erdogan. 



Le motivazioni dell’attentato possono ben essere inquadrate nel capovolgimento delle alleanze e delle politiche di Erdogan, prima e dopo il fallito colpo di Stato di qualche mese fa. Un’inversione strategica che ha portato la Turchia, da una relazione privilegiata con Europa e Stati Uniti (andata in crisi, soprattutto con l’Europa, per la svolta islamistica del regime di Erdogan e sulla spinosa questione dei diritti umani), a un riavvicinamento spericolato alla Russia di Putin e per il tramite della Russia all’Iran sciita. E a prendere le distanze dagli interessi del fondamentalismo sunnita espressi dall’Isis, prima tollerati, e persino aiutati sul terreno dello scontro con la Siria di Assad, in funzione anticurda. 



Se sarà individuato con certezza l’attentatore del Reina, e il suo profilo risulterà compatibile con le rivendicazioni dell’Isis, si potrà ascrivere il massacro di Capodanno alla volontà del terrorismo fondamentalista, che si serve del sedicente califfato di al Bagdadi, di punire Erdogan per il patto con Putin e l’Iran; che è già sembrata essere la motivazione dell’assassinio dell’ambasciatore russo di qualche settimana addietro.

Ma paradossalmente, anche se fosse la vera motivazione dell’attentato, per i simboli occidentali e laici su cui si è accanita, questa volontà di punire la Turchia di Erdogan, più che destabilizzarla potrebbe contribuire a stabilizzare il paese, secondo le regole di chi vuole vivere in una certa maniera, quella del richiamo della società turca ai valori dell’islam (come ha sostenuto Nihal Batdal su queste pagine).

Fosse così, l’attentato rischierebbe di dare paradossalmente forza al ritorno della Turchia all’islam dalla laicità dello Stato turco voluto dalla rivoluzione di Ataturk, complicando ancora di più la vicinanza della Turchia all’Europa su cui si affaccia, e ai suoi valori, e rendendo sempre più ambigua la sua posizione sulla scena mediorientale, su quale ruolo intenda giocare in futuro, se di stabilizzazione della regione e di assicurazione ai suoi confini, o di concorrenza con le aspirazioni del fondamentalismo sunnita alla rinascita del califfato.

Se fosse vera questa seconda ipotesi, il rischio è che sia ora la Russia a fare da apprendista stregone con l’universo sunnita per il tramite della Turchia, dopo che per decenni, con i risultati che si sono visti, questo ruolo lo hanno svolto gli Stati Uniti con i Sauditi e le monarchie del Golfo, consentendogli di veicolare e finanziare il fondamentalismo religioso e il suo rifiuto dei valori della laicità occidentale. 

Una scena geopolitica che non promette niente di buono e che dovrebbe consigliare a Europa, Stati Uniti e Russia un loro diverso dialogo, affrancato da reciproci egoismi, per gestire al meglio lo spinoso dossier del fondamentalismo islamico, che sarà a lungo sui tavoli delle loro cancellerie in questo secolo.