I recenti attentati in Turchia hanno dato luogo a diverse ipotesi: rappresaglia dell’Isis per il riallineamento di Ankara con Mosca, di islamisti turchi delusi dalla politica di Erdogan, dei curdi del Pkk. La comprensione di questi avvenimenti può essere aiutata dal tentativo di analizzare obiettivi e strategie dei numerosi attori sullo scenario, iniziando da quelli esterni all’area, cioè Russia, Stati Uniti ed Europa.
La strategia russa appare la più lineare, tenendo conto che fin dai tempi degli zar la Russia ha considerato essenziale la presenza nel Mar Nero e nel Mediterraneo e in questa ottica vanno letti la riannessione della Crimea e l’intervento in Siria. Iraq e Siria, governati da partiti socialisti, durante la Guerra Fredda erano schierati con l’Unione Sovietica e i legami sono continuati con la Federazione Russa. A suo tempo, i russi tentarono di evitare l’invasione dell’Iraq favorendo l’esilio di Saddam Hussein, ma il piano non funzionò anche per l’atteggiamento di qualche governo europeo, segnatamente la Francia. Analogamente, l’intervento russo in Siria è diretto, più che a mantenere Bashar al Assad al potere, a preservare uno Stato siriano fondamentalmente laico, che permetta la continuazione della presenza russa nelle sue basi sul Mediterraneo. Anche gli ondivaghi rapporti con Ankara possono essere letti in questa luce, dato che la Turchia controlla i passaggi dal Mar Nero al Mediterraneo e rappresenta un ponte verso l’Europa (e la Nato). Ed è inoltre un possibile concorrente nell’Asia ex sovietica.
In sintesi, la strategia di Mosca sembra diretta ad assicurare una sostanziale stabilità della regione, che consenta di consolidare la presenza russa: da qui derivano l’intervento in Siria, l’alleanza con l’Iran e la ricerca di rapporti distesi con la Turchia per evitare di aprire un altro pericoloso fronte. Ne consegue anche una decisa lotta all’estremismo islamista, una minaccia diretta anche per la Russia, e la presa di distanza dall’Arabia Saudita e dal suo regime wahabita, come dimostra la sponsorizzazione dell’incontro di Grozny e la sua condanna del salafismo.
Meno chiara appare la strategia degli Stati Uniti, almeno negli ultimi sviluppi, ancora apparentemente collegati al concetto del regime change. Se nel periodo della Guerra Fredda sia l’Urss che gli Usa si sono attivamente adoperati per sostituire governi ostili con altri considerati amici, dopo la caduta del Muro gli Stati Uniti hanno continuato in nome della “esportazione della democrazia”. I disastrosi risultati di questa politica sono ormai evidenti a tutti. Rimane tuttavia una differenza sostanziale tra l’invasione dell’Iraq e le guerre in Libia e in Siria. In questi due Paesi, Obama ha rifiutato di mettere “boots on the ground“, limitandosi all’invio di armamenti, istruttori e forze speciali. In Iraq, invece, l’esercito americano è intervenuto direttamente e pesantemente, rimanendo in forze anche dopo la fine della guerra. Ciò nonostante, l’Iraq è precipitato nel caos e sorprende che Obama, la cui vittoria su Bush derivò in larga parte proprio dalla questione irachena, abbia potuto commettere un così grave errore.
A meno che sia stata seguita una diversa strategia. Il dubbio sorge se si riprende in esame il discorso che Obama tenne al Cairo nel 2009, all’inizio del suo primo mandato, nel quale assunse una posizione molto favorevole nei confronti della Fratellanza musulmana. Forse Obama riteneva che, per il complicato mondo mediorientale, la migliore soluzione fosse quella specie di “teocrazia laica” che contraddistingue la parte non radicale dei Fratelli musulmani. La realtà si è rivelata ben diversa, ma Obama non ha cambiato politica, dimostrandosi indifferente al caos generato in un’area pur così importante.
Un atteggiamento che parrebbe fortemente ideologico, a meno di avanzare una diversa ipotesi. Ai tempi della guerra all’Iraq, gli americani vennero accusati da più parti di voler mettere le mani sul petrolio iracheno. Da alcuni anni, grazie allo shale oil, gli Stati Uniti sono diventati potenziali esportatori di gas e petrolio, rendendo non più fondamentale il controllo dei produttori mediorientali, diventati concorrenti, come di mostrato dalla guerra dei prezzi scatenata dai sauditi. In questa nuova situazione, l’instabilità della regione diventa un problema soprattutto per Russia ed Europa, molto meno per gli Usa.
Rimane da spiegare il sostegno incondizionato al regime fondamentalista dell’Arabia Saudita, finanziatore con il Qatar di movimenti estremisti e colpevole di eccessi nella sua guerra nello Yemen. E, come visto, deciso concorrente per il petrolio. In aperta contraddizione con questa alleanza, peraltro, Obama ha raggiunto un contrastato accordo con l’Iran sul nucleare, con la sponsorizzazione di Putin. Sembrerebbe un atteggiamento schizofrenico, ma del tutto razionale se l’obiettivo fosse di mantenere instabile la regione, con lo scopo di spingere l’Europa a rapporti sempre più dipendenti da Washington, vedasi Ttip, e di tenere sotto pressione l’avversario russo.
Venendo infine all’Europa, il punto è che non sembra esistere alcuna strategia comune, con ogni Stato che procede secondo suoi interessi particolari. Nella regione e in Nord Africa è soprattutto attiva la Francia, in primo luogo nell’esportazione di armamenti. La Francia è anche all’origine dell’avventura libica, prettamente in funzione anti-italiana e non solo per questioni petrolifere: la Libia è l’unica parte del Maghreb storicamente al di fuori dell’influenza francese.
A partire da questo possibile scenario, si può tentare un’ analisi degli obiettivi e delle strategie degli attori locali, Arabia, Iran e Turchia.
(1 – continua)