NEW YORK — Good morning America! Ma è davvero un buon giorno? Cosa ci dice veramente se un giorno è buono o no, cosa ci da il polso della situazione?
Dopo dieci mesi di penosa, dolorosa e persino violenta divisione proprio su quel che sarebbe la pietra angolare di questa democrazia – la presidenza – sembrava che le cose si fossero calmate un po’. Migliorate? No, ma calmate sì. Meno manifestazioni e violenze per le strade, meno veleno ideologico dei media verso il presidente. Calmate nel senso che magari inconsapevolmente l’America sembrava avviata ad imparare una nuova lezione: vivere (almeno per i prossimi tre anni) “senza presidente”, come se il presidente non ci fosse, con entrambi gli schieramenti (gli amici ed i nemici giurati di Donald) a contemplare un’evidenza: Trump abbaia, ma non morde. Ergo ognuno combatta per la sua causa, faccia quello in cui crede, porti avanti le sue istanze, perché tanto il presidente Trump non è in grado di farlo – sempre poi che abbia qualcosa a cui tiene veramente.
Sto tratteggiando la questione per sommi capi, certo, e la mia potrebbe sembrare una sentenza ingloriosa ed ingiusta, ma non se osserviamo i fatti, se teniamo un occhio su quella che era la sua agenda politica, piacesse o meno. Vinta la prima grande battaglia con la nomina di Gorsuch alla Corte Suprema (operazione riuscita pagando il prezzo della cosiddetta “nuclear option”, ovvero un radicale cambiamento nella procedura elettiva), Trump non ne ha cavata fuori più una: tagli fiscali, proverbiale cavallo di battaglia repubblicano? Tutto per aria; revoca dell’Obamacare e nuova riforma sanitaria? Niente da fare, con tanti del suo partito schierati con l’opposizione; muro a difesa dei confine col Messico? A tutt’oggi neanche un mattone; drastiche restrizioni rispetto ai migranti, dai “Dreamers” che son qua da un pezzo a quelli che vorrebbero provare a venire? Ogni bando ha il suo giudice che lo mette KO; Iran, Corea e le reciproche minacce? Se non si trattasse di nucleare sembrerebbero litigi tra bambini in cui ognuno crede di averla vinta a parole.
Quel che ha tenuto a galla Trump fino all’altro giorno con un approval rate attorno al 40 per cento sono stati gli uragani. Harvey ed Irma non li ha potuti fermare nessuno, ma la risposta dell’amministrazione, nello spirito e nelle opere, ha centrato il bersaglio.
Fino all’altro giorno. Poi è saltata fuori la NFL, la National Football League con gli episodi di contestazione e la bagarre è riesplosa: atleti che come segno di contestazione si inginocchiano durante l’esecuzione dell’inno nazionale, il momento più sacro in qualsiasi evento pubblico. Perché qui l’inno nazionale è come era la preghiera una volta in Italia, senza non si comincia niente. Un grido contro il razzismo, sì, ma inginocchiarsi, starsene seduti o addirittura rimanersene negli spogliatoi significa non riconoscersi più, non identificarsi, dissociarsi: questo non è più il mio paese, questo non è il mio presidente. E’ giusto?
Trump non l’ha mandata a dire. Ha cominciato a tweettare a ripetizione, come fa lui, additando i contestatori e chiedendo agli americani “veri” di esprimere il loro dissenso. E’ una mossa alla Trump, impulsiva e populista che certamente rinsalda il suo personale legame con quell’America diseredata e bisognosa di ideale, quella base che lo ha portato alla Casa Bianca. Ma è anche benzina sul fuoco dell’incomunicabilità che si mangia quel poco di storia comune e di progresso civile che la giovane vita di questo paese è andata costruendo. E’ giusto?
Ha senso aizzare alcuni per zittire gli altri? E pensare di cambiare le regole della democrazia perché la gente ha eletto un presidente “sbagliato”?
Chi ha torto? Si fa presto a dire entrambi, ma è così.
Forse nella terra dei liberi, nella patria dei coraggiosi l’unità è diventata impossibile?