E se la crisi catalana venisse europeizzata? Se Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione eletto dal Parlamento europeo, chiamasse a Bruxelles tutti i contendenti per aiutarli a raggiungere un accordo? Se dopo il patto del Venerdì santo che mise fine alla guerra civile irlandese, ci fosse magari un patto di Ognissanti per impedire una nuova guerra civile nella penisola iberica? Non sappiamo che cosa accadrà oggi con il referendum catalano e tutti speriamo che non ci saranno esiti violenti. Allo stato attuale possiamo solo avanzare ipotesi e desideri. Il primo auspicio è che il conflitto tra Barcellona e Madrid non venga visto da tutti noi, dagli altri europei e dalle istituzioni dell’Unione, come una sorta di spareggio tra Barça e Real al Camp Nou. Finora è stato così, ma è arrivato il momento di prendere coscienza della gravità di quel che accade e delle sue conseguenze.
Autorevoli analisti sostengono che ci sono buone ragioni da entrambe le parti, anche se le passioni hanno preso il sopravvento. Sul Corriere della Sera due economisti, Alberto Alesina ed Enrico Spolaore, hanno firmato un lungo articolo per invitare il governo spagnolo a un approccio pragmatico e flessibile. Giusto, ma gli autori partono dalla considerazione che lo Stato spagnolo sia “sorprendentemente centralizzato”. In realtà, è uno dei meno centralisti d’Europa, meno senza dubbio dell’Italia e della Francia.
La Costituzione democratica del 1978 ha rotto una tradizione introdotta nel ‘700 da Filippo V. Come proposta di soluzione al problema regionale e alle rivendicazioni dei gruppi nazionalisti baschi e catalani, senza dimenticare il crescente nazionalismo gallego, valenziano, delle isole Canarie e andaluso, è stato creato un nuovo modello di Stato decentralizzato, nel quale ogni regione si converte in una comunidad autónoma con un governo proprio, un parlamento, tribunali di ambito regionale e un Statuto di autonomia che stabilisce il modello e le competenze che può assumere. Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, le nazionalità storiche, seguirono una via rapida e con maggiori competenze. Si aggiunse poi anche l’Andalusia.
Negli ultimi vent’anni il decentramento è aumentato creando un vero e proprio modello. I costituzionalisti identificano la natura dello Stato spagnolo come una sorta di terza via tra centralismo e federalismo, e per definirlo utilizzano l’espressione “Stato delle autonomie”. Il titolo VIII della Costituzione, infatti, riconosce un diritto all’autonomia delle distinte nazionalità e regioni, esteso a tutti i livelli di governo: municipale, provinciale e regionale. La carta costituzionale non attribuisce allo Stato una forma politicamente decentrata, ma stabilisce le regole per un processo volontario e graduale di decentramento.
Le comunità assomigliano più ai Länder tedeschi che alle regioni italiane. Le loro competenze esclusive vanno dall’industria ai trasporti, dall’agricoltura al commercio, dal turismo alle politiche urbane. In concorrenza con lo Stato si occupano poi di sanità, educazione, credito e risparmio, ambiente, economia e mezzi di comunicazione. Le comunità legiferano nell’ambito di leggi-quadro nazionali e concorrono, attraverso i propri apparati amministrativi, all’attuazione della legislazione statale. La progressiva cessione di competenze (avvenuta con flessibilità, nel senso che alcune comunità sono andate più avanti delle altre) ha lasciato allo Stato centrale il “nucleo” tipico dei sistemi federali: difesa e forze armate; dogana e commercio estero; relazioni internazionali; sistema monetario; telecomunicazioni. Si può andare ancora più avanti, ma fino a che punto?
I catalani che vogliono uno Stato indipendente, secondo il Ceo, il centro studi dell’opinione pubblica a Barcellona, sono il 34,7% in continua discesa dal tetto del 48,5% raggiunto nel 2013 (i dati li ha pubblicati ieri El Pais). È possibile decidere la secessione da un Paese con il quale si è condiviso ogni cosa, anche i vantaggi reciproci, senza consultare tutto il popolo? Come ha scritto sulla Repubblica l’ex primo ministro socialista Felipe Gonzalez, “in questo caso di tratta di far scomparire la sovranità di tutti gli spagnoli nel decidere il proprio futuro, sostituendola con una nuova sovranità, esercitando un presunto diritto all’autodeterminazione che viola la Costituzione e lo stesso Statuto di autonomia”. È una concezione della volontà popolare al di sopra della legge che nega la democrazia liberale e lo stesso impianto costituzionale.
L’Unione europea è posta davanti a un dilemma che ha cercato di scansare. La sua posizione non è facile. Finora ha sostenuto le ragioni di Mariano Rajoy e del governo di Madrid in base al principio di non ingerenza nelle vicende interne a un singolo Stato su materie che sono di competenza nazionale. Ma anche i catalani sono europei che non vogliono distaccarsi dall’Unione, al contrario. L’Ue si trova, così, in mezzo al guado.
Se fosse solo un accordo diplomatico-economico tra governi, senza istituzioni, principi, trattati, elezioni comuni, l’Ue potrebbe astenersi lasciando che la Spagna si gratti le proprie rogne. E magari anche il Belgio con i fiamminghi, e tutti gli altri alle prese con i propri indipendentisti, nessuno dei quali vuole uscire dall’Unione (anzi, gli scozzesi vorrebbero rientrare, lasciando il Regno Unito). Se fosse uno Stato federale, le spinte centrifughe potrebbero essere gestite e accettate in nome di una sovranità superiore. Se fosse un’entità erede del Sacro romano impero germanico, come sostengono i nazionalisti inglesi, potrebbe accogliere un patchwork di piccole nazioni, di città-stato, di regioni autonome dentro una cornice tenuta insieme dalla cultura, dalla tradizione, dalla religione persino. Invece, l’Ue è un po’ questo, un po’ quello, è ancora un processo del quale non si vede chiaramente la meta. Tuttavia, può davvero rinunciare a gestire le crisi profonde che si creano al proprio interno e mettono in discussione il futuro dei popoli?
Giunti a questo punto, nel momento in cui lo Stato nazionale non riesce a uscire dall’impasse, l’Ue dovrebbe intervenire (senza per questo violare la sovranità) non come arbitro, ma come custode degli interessi generali, dei catalani, degli spagnoli e degli altri cittadini europei che sarebbero colpiti seriamente da un eventuale collasso della Spagna. Il terreno per un compromesso ancora esiste, è compreso tra la rinuncia alla secessione da un lato e dall’altro ulteriori concessioni all’autonomia (per esempio, sul piano fiscale). Non è facile, tuttavia non si parte da zero, soprattutto se la fiammata di questa domenica primo ottobre si spegnerà senza conseguenze catastrofiche.