Il blitz ordinato sabato 4 novembre a Riyad dal principe ereditario Mohammed bin Salman ha tutte le caratteristiche di un colpo di stato di palazzo messo in atto per un maggiore accentramento di potere. Nonostante le interessate reticenze delle diplomazie occidentali che non si pronunciano in proposito, c’è l’evidenza che molti degli arrestati appartengono alla famiglia Abdallah, vale a dire al clan che ambisce alla successione al trono e agli oppositori che sostengono la linea morbida con l’Iran. Inoltre, non sfugge che le purghe hanno avuto come esito principale quello di concentrare nelle sole mani del principe Mohammed tutti e tre i servizi di sicurezza saudita, cioè i servizi militari, i servizi di sicurezza interna e la guardia nazionale. Queste funzioni in tempi precedenti erano distribuite nei vari rami della famiglia, per evitare pericolosi accentramenti di potere in una monarchia di per sé assolutistica. 



In tutto, agli arresti domiciliari presso l’albergo Ritz di Riyad o in prigione, sono circa 200. Tra gli arrestati ci sono 11 principi e 30 attuali o ex ministri e uomini d’affari. In particolare, molto scalpore hanno fatto alcuni arresti eccellenti come quello di Alwaleed bin Talal, ovvero l’uomo più ricco del Medio oriente ed investitore globale. Degno di nota è che i conti bancari sequestrati sono più di 1.700 e se i provvedimenti restrittivi motivati per “corruzione sistematica e appropriazione indebita” saranno confermati, tutte le attività finanziarie ed i beni rientreranno nelle disponibilità della corona.



Purtroppo la vicenda non si esaurisce all’interno dell’Arabia Saudita e non è circoscritta alla successione al trono o ad azioni finalizzate a produrre cambiamenti in senso positivo nella politica interna del paese. Al contrario, l’Arabia Saudita ha intensificato la sua retorica bellicosa contro l’Iran ed Hezbollah, prendendo come spunto il lancio di un missile dei ribelli yemeniti (neutralizzato dalla difesa antimissile) contro l’aeroporto di Riyad. Il principe Mohammed ha definito questo episodio “un atto di guerra contro il Regno supportato dall’Iran” ed ha richiamato tutti i suoi cittadini in Libano a rientrare immediatamente in patria. 



All’operazione offerta al pubblico come “operazione anti-corruzione” si associano, esattamente il giorno successivo, le singolari dimissioni del premier libanese Saad Hariri avvenute a Riyad, in diretta dalla tv Al Arabiya. In tale occasione, il premier libanese ha giustificato la sua decisione facendo riferimento a una possibile minaccia per la sua vita ed ha accusato l’Iran ed il movimento sciita Hezbollah di essere colpevoli “di fomentare conflitti in Libano e nel mondo arabo” e di “seminare distruzione” nel suo paese, in Siria, Bahrein e Yemen. E’ utile ricordare che la dichiarazione è avvenuta proprio quando Hezbollah — impegnato contro Isis in Libano ed in Siria — ha espugnato con successo (insieme all’esercito siriano) l’ultima roccaforte dello stato islamico ad Abu Kamal, nel nord del paese.

E’ anche interessante ricordare che solo pochi giorni prima che Hariri decidesse di dimettersi per timore di essere ucciso dagli iraniani, il premier libanese aveva ricevuto a Beirut il diplomatico iraniano consigliere dell’ayatollah Khamenei, Ali Akbar Velayati, il quale aveva dichiarato al termine che l’incontro era stato “buono, positivo e costruttivo” e che “le relazioni iraniane-libanesi sono sempre costruttive e l’Iran sostiene e protegge sempre l’indipendenza del Libano” .

Intanto a Beirut, alle misteriose dimissioni in diretta televisiva, il presidente libanese Aoun ha reagito invitando Hariri a rientrare per formalizzarle e per dare spiegazioni dirette al Parlamento. Successivamente, visto l’inutilità dei tentativi di contattare direttamente l’ex premier Hariri, Aoun ha chiesto la mediazione francese ma essa non ha avuto successo.

Secondo indiscrezioni pubblicate sui giornali libanesi, Ryad avrebbe concesso ad Hariri due opzioni: può rimanere in un esilio dorato in Arabia Saudita; 2) può recarsi a Beirut per formalizzare le sue dimissioni e motivarle in parlamento come ha chiesto il presidente Aoun. In questo caso però egli potrà recarsi a Beirut il tempo strettamente necessario (2 giorni) e si dovrà impegnare a non modificare quanto detto all’annuncio delle sue dimissioni. A garantire che terrà fede a quanto promesso la sua famiglia rimarrà in Arabia Saudita. Altro “argomento” naturalmente sono i 7 miliardi di dollari concessi dalle banche saudite alle sue aziende.

Il palese tentativo di intromissione nella politica interna libanese da parte dei sauditi è frutto di un accordo stipulato con Israele che nei giorni scorsi è stato reso pubblico dal canale televisivo israeliano Channel 10 News. Tale pressione ha come fine l’indebolimento di Hezbollah in Libano e l’uscita dal governo del paese per contrastare l’accresciuta influenza iraniana in Siria. I mezzi che saranno utilizzati sono di tutti i tipi, incluso un possibile attacco militare israeliano nel sud del Libano. A questa operazione Tel Aviv si prepara da tempo. La questione palestinese finora irrisolta però pone un freno: è certo infatti che un’aperta alleanza tra Israele e Arabia Saudita in funzione anti-iraniana sarebbe mal vista dalla maggior parte dell’opinione pubblica araba, almeno prima di aver risolto il problema palestinese.

Per superare tale ostacolo, Riyad sta esercitando pressioni sull’autorità palestinese affinché normalizzi i rapporti con Israele. Attualmente la fase è interlocutoria ma il presidente palestinese Abbas ha espresso riserve su un’eventuale iniziativa di pace con Israele che parta prima di uno stato palestinese. 

Tuttavia l’incertezza dell’alleanza dell’autorità palestinese con Riyad non consola: per incendiare il Libano non occorre per forza una minaccia esterna, con 1.500.000 profughi (quasi tutti sunniti), il rischio che qualcuno inneschi una miccia per portare il caos nel paese che — occorre ricordarlo — conta soli 4 milioni di abitanti, è reale.