L’attuale crisi politica negli Stati Uniti va oltre le controversie su Donald Trump e investe aspetti più generali, che toccano anche lo scenario europeo. Un primo problema è dato dal rischio di violare quel principio fondamentale per la democrazia statunitense, e in generale per la democrazia, che è il bilanciamento tra i vari poteri dello Stato; il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Nonostante sia sotto costante attacco e sia per molti versi un presidente azzoppato, nei circa nove mesi dal suo insediamento Trump ha emanato 51 ordini esecutivi, un numero decisamente superiore rispetto a quelli emanati, nello stesso periodo di tempo, da tutti i presidenti che lo hanno preceduto negli ultimi sessant’anni. In particolare, ha raddoppiato quelli emessi da Barack Obama, nonostante in campagna elettorale lo avesse accusato di esautorare il Congresso con l’eccessivo numero di ordini esecutivi. Un dibattito non sconosciuto all’Europa, per esempio in Italia, con le polemiche sul continuo e ampio ricorso al voto di fiducia da parte del governo.
Un’altra polemica è sorta in occasione dell’uccisione di quattro soldati americani in Niger, in un’imboscata di jihadisti all’inizio di ottobre. Malgrado la presenza nel Paese africano di almeno 800 militari statunitensi, diversi senatori hanno dichiarato di non esserne a conoscenza, compresi alcuni “falchi” repubblicani. Pentagono e Casa Bianca affermano invece di aver debitamente informato il Congresso. Una polemica che richiama quella contro Obama per essere intervenuto in Libia senza nessuna approvazione parlamentare. Anche in diversi Stati europei la percezione della presenza di propri militari all’estero sembra un po’ offuscata e, comunque, non adeguatamente discussa in Parlamento. Si veda ad esempio la partecipazione italiana a manovre aeree in Israele, di cui ha parlato Mauro Bottarelli sul sussidiario.
Come descritto in un precedente articolo, sia il Partito repubblicano che quello democratico sono in profonda crisi, al loro interno come nei rapporti con i loro elettorati. Nel Partito democratico Hillary Clinton deve difendersi dalle accuse di aver preso, in modo inappropriato, il controllo del Comitato nazionale del partito, danneggiando così gravemente Bernie Sanders, suo avversario alle primarie. E tornano alla ribalta le modalità poco ortodosse con cui aveva gestito informazioni riservate quando rivestiva la carica di Segretario di Stato. Si sta anche muovendo il mondo femminista che, orfano dopo l’imprevista sconfitta della Clinton, sembra aver trovato una sua candidata nella senatrice Elizabeth Warren, punta di diamante dell’ala progressista del Partito democratico. La Warren potrebbe entrare nella lista dei possibili candidati democratici alla presidenza, insieme all’ex vicepresidente Joe Biden e a Sanders. Alla scadenza naturale nel 2020 o prima, se riuscissero a far dimettere Trump.
La presenza non di secondo piano sulla scena politica di personaggi come Warren e Sanders è indice di uno spostamento a sinistra tra i democratici, che sembra però interessare più gli elettori che non il partito. La dirigenza e l’apparato sembrano ancora schierati dietro i Clinton e Obama e, questa l’accusa di una parte degli elettori, più interessati a Wall Street che a Main Street. Uno scenario anche questo con molte assonanze con l’Europa, dove la crisi piuttosto diffusa dei partiti socialisti ha dato nuova vita alle formazioni alla loro sinistra.
E’ evidente che questo tipo di confronti deve tener debito conto delle differenze storiche e culturali tra Stati Uniti ed Europa, ma comune sembra essere l’aumento dell’insoddisfazione verso sistemi istituzionali non più capaci di rispondere alle concrete esigenze dei cittadini. Si producono così spinte popolari antisistema, acriticamente definite populiste dai difensori del sistema su entrambe le sponde dell’Atlantico. E’ l’accusa fatta in campagna elettorale anche a Trump che, malgrado il suo status di miliardario, si è presentato come candidato antisistema. E di fatto lo è stato, come dimostra la sua vittoria in alcuni stati del cosiddetto Rust Belt, feudi storici dei Democratici. E’ probabile che gli elettori di quelle classi operaie siano ormai delusi anche da Trump e ciò giustifica l’ipotesi di future candidature democratiche più “a sinistra” per ricuperare questo elettorato tradizionale. Ciò però potrebbe far perdere voti al centro a favore del partito repubblicano, se questo riuscisse a ritrovare, a sua volta, una sufficiente coesione interna e un’adeguata offerta politica.
Si ripropone per gli Stati Uniti lo stesso urgente problema che si è già posto in buona parte di Europa, cioè la ripresa di un’autentica e chiara coscienza identitaria dei partiti politici, che sappia interpretare i bisogni e le idealità dei cittadini. In assenza di questa sorta di palingenesi, rimarrà solo il proliferare di movimenti antisistema o di protesta, anche violenta, e l’aumento sempre più significativo della disaffezione verso la politica, come dimostra il costante e diffuso incremento dell’astensionismo.