AUCKLAND — Il Parlamento europeo ha approvato due risoluzioni finalizzate alla stipula di accordi commerciali con Australia e Nuova Zelanda lo scorso 23 ottobre. In linguaggio corrente significa trattati di libero scambio fra Europa e i due paesi, che verranno poi definiti dai rispettivi governi. Jean-Claude Junker nelle ultime settimane li aveva richiamati spesso nelle proprie dichiarazioni e relazioni ufficiali, quindi c’è da credere che si arrivi presto al dunque. Anche perché un miliardo di nuova esportazione significa 14mila posti di lavoro, dice Junker. Il prossimo passo sono i cosiddetti “mandati negoziali” che il Consiglio, preso atto della decisione parlamentare, conferisce alla Commissione per redigere concretamente gli accordi. 



In Nuova Zelanda i mezzi di stampa annunciano la notizia, la fanno un po’ spiegare da qualche economista, che ne sintetizza brevemente il senso e le potenziali opportunità. In Italia, occupata da ben altro, poche le reazioni, tranne quelle allarmate degli allevatori piacentini che — come già l’eurodeputato della Lega Angelo Ciocca lo scorso luglio — segnalano una serie di rischi per il mercato domestico e per i consumatori. 



Questi paesi hanno infatti un’agguerrita industria agroalimentare (carne, frutta, pesce) per cui viene subito il sospetto di chi sa quali veleni introdurranno e quale dumping nei prezzi. In realtà sfogliando le dieci pagine presentate dal relatore, il democristiano tedesco Daniel Caspary, tutte le riserve e le preoccupazioni degli allevatori e di Angelo Ciocca sembrano ampiamente prese in considerazione. Una serie di riserve e di paletti disegnano infatti la cornice di un accordo consapevole degli standard elevati nelle aspettative di protezione dei mercati europei, come anche delle esigenze di tutela di aree produttive o singoli prodotti di elevato appeal e risonanza.



D’altra parte, può essere che solo l’Italia in Europa debba temere concorrenza sleale e accordi suicidali fatti da euroburocrati? Commentare l’Italia oltre che inutile comincia ad essere noioso. Osserviamo piuttosto che la prospettiva è quella di un mercato di circa 25 milioni di persone con un costo della vita piuttosto (anzi molto) elevato, per cui non è difficile compensare i costi di trasporto con margini adeguati. In entrambi i paesi — Australia e Nuova Zelanda — la casa e l’abitazione sono uno sport nazionale. Cambiarla, ingrandirla, rimodernarla. Arredarla. Tutti settori in cui siamo strepitosi per stile e rapporto qualità/prezzo. Qualcuno ricorderà le motivazioni per cui Ikea scelse i rubinetti del Piemonte per le sue cucine. In Nuova Zelanda poi l’emergenza abitativa e la previsione (nonché la gestione programmata) di crescita demografica proietta il paese in una corsa e sfida verso un grande piano di edilizia privata e infrastrutture. I trattati con l’Europa riguarderanno anche servizi e investimenti (non solo commercio puro). 

C’è poi un dettaglio che va considerato attentamente. Questi paesi intercettano un enorme turnover di visite e presenze asiatiche qualificate. Migliaia di studenti (e lavoratori) che ogni anno pagano fior di rette e tariffe per scuole, università e corsi vari. Che formano la loro visione “occidentale”. La futura classe dirigente di Cina, Tailandia, Malesia, India, Corea. Che compra costosissimi vini locali sulla cui etichetta (bruttina) c’è correttamente indicato “possibili tracce di uova e latte”. Nel vino!! Che mangiano pizza e apprendono che la vera pizza è quella di New York. “Authentic New York Pizza” recita lo slogan di una catena di medio-piccole pizzerie al taglio che stanno avendo un successo strepitoso. Anche perché mostrano tradizione garantita e ingredienti di prima scelta, come la famosissima “mozzarella del Wisconsin”. Il fondatore è calabrese, emigrato in America negli anni 90 e ha ben 20 punti vendita nella piccola Nuova Zelanda (quando ne ha appena 26 in 4 stati americani). Insomma, il primato che la pasta è una cosa italiana è quasi perso, ci manca di perdere anche la pizza. Così rimaniamo solo col mandolino. Dite agli allevatori piacentini che la colpa non è e non sarà dei trattati di libero scambio.