Non vi sono solo smanie di esibizionismi violenti e ingiustificati di folle esagitate dietro la ribellione della Catalogna esplosa nelle settimane scorse. Vi è anche – e direi soprattutto – la comprensibile (ancorché esagerata) voglia di punire uno Stato centrale che negli ultimi anni si è rimangiato le promesse e tradito i patti da lui conclusi con le sue Regioni (le CCAA), e con la Catalogna in particolare, in materia di federalismo fiscale e politico. Il background della rivolta indipendentista catalana è dato da una situazione di ri-centralizzazione cominciata ancor prima dello scoppio della bufera economica del 2009, e dettata da un certo “pentimento” dello Stato centrale per un’elargizione di poteri alla periferia regionale operata in precedenza e considerata troppo generosa.
Volendo sintetizzare, la ri-centralizzazione ha trasformato, nel passato decennio in Spagna, quelli che erano i progetti (basati su leggi e normative già regolarmente approvate) di vera e propria autonomia politica in una sorta di mera autonomia manageriale o amministrativa. Questo processo ha avuto una particolare incidenza tra il 2011 e il 2013 in tema di relazioni finanziarie Stato- CCAA, uscite decisamente peggiorate per queste ultime, in particolare per la Catalogna. Era apparso insopportabile alle CCAA l’impegno che, senza previe consultazioni, Madrid si era preso con l’Ue a ridurre entro il 2013 il deficit pubblico spagnolo dall’11,5% al 3% del Pil, con sacrifici richiesti alle CCAA molto più pesanti di quelli assunti dallo Stato.
Un altro successivo e incisivo step della ri-centralizzazione era stata la modifica costituzionale del 2011 in base alla quale spetta allo Stato centrale decidere unilateralmente il principio della stabilità di bilancio per le CCAA, principio poi inserito nella Legge Organica 2/2012. È proprio questa legge che costituisce il punto focale di una situazione di crisi dei rapporti centro-periferia che dagli studiosi non necessariamente “partigiani” dell’autonomia catalana viene considerata lesiva di quel percorso di autonomia politica che aveva contraddistinto fino ad allora la “via spagnola” al federalismo. Le CCAA lamentano di aver dovuto sopportare misure e target di risanamento dei loro deficit (ad esempio, tra il 2013 e il 2014: -90%) ben più pesanti di quelli dello Stato centrale (-30%), nonostante esse debbano sostenere le spese per le politiche pubbliche di maggior spessore, come quelle per l’istruzione, la sanità e i servizi sociali. La medesima legge istituiva un severo apparato di obblighi delle CCAA e di controlli sui loro adempimenti circa la preparazione dei bilanci regionali, la loro approvazione e implementazione, per i tre anni successivi – 2013, 2014 e 2015.
Tra le “punizioni” inflitte dallo Stato alle CCAA in quell’infuocato primo periodo di “redenzione collettiva” vi fu anche la cessazione di preziosi finanziamenti, comprendenti quelli per le infrastrutture previsti da precedenti leggi, inclusa la famosa “terza addizionale” contenuta nello Statuto della Catalogna, che impegnerebbe lo Stato a finanziare in Catalogna investimenti in infrastrutture pari alla quota catalana del Pil spagnolo, ma sempre rigorosamente contestata dalla Corte Costituzionale.
Proprio in simmetria con il descritto processo di ri-centralizzazione si verificava una (puntigliosa?) radicalizzazione della richiesta di autonomia della Catalogna, sino al referendum sull’indipendenza che si sarebbe dovuto tenere già nel 2013 (ovvero quattro anni prima di quello tenutosi nello scorso ottobre) e giustificato da una “dichiarazione di sovranità” approvata un anno prima dal Parlamento, che però la Corte Costituzionale aveva in seguito dichiarata illegittima. Il 9 novembre del 2014 si era svolto un referendum “informale” nel quale l’80% dei votanti si era espresso a favore dell’indipendenza dal governo della Spagna. Gli organizzatori della consultazione avevano parlato di una partecipazione di circa due milioni di persone, con un’affluenza stimata al 36%: una votazione certo simbolica perché non riconosciuta dal governo Rajoy e soprattutto perché definita illegittima dalla Corte Costituzionale spagnola, dunque senza alcuna conseguenza legale, ma pur sempre un segnale (preoccupante per Madrid!) di un desiderio di quell’asimmetria totale ed “esplosiva” che sarebbe il distacco della Catalogna dal resto della Spagna.
La questione era riemersa con maggior “profilo di rischio” nelle elezioni regionali dell’ottobre 2015, che avevano visto una partecipazione del 77% dei votanti (un fatto assolutamente inedito per questa tipologia di evento). Poiché i partiti favorevoli all’autonomia da Madrid avevano ottenuto la maggioranza solo dei seggi ma non dei voti si era parlato di “una vittoria a metà per gli indipendentisti”, con un 48% di voti che sa di vera e propria beffa per chi credeva nell’indipendenza.
Da parte degli studiosi spagnoli ci si è chiesti, in questi ultimi anni, se la soluzione tecnica del problema “Catalogna” potrebbe consistere nell’estendere a tutte le CCAA di “regime comune” il “regime forale” goduto da sempre dai privilegiati Paesi Baschi e Navarra: ma i dati dicono che il costo dell’estensione del regime forale all’universo delle CCAA di regime comune sarebbe insostenibile (circa 50 miliardi di euro ) e che (guarda caso) l’unica Comunità di regime comune che potrebbe permettersi un tale lusso (a spese sue, non della nazione spagnola, come avverrebbe per le citate Comunità forali esistenti) sarebbe la Catalogna, stante il suo più che robusto “residuo fiscale”.
Proprio nel detto anno 2012, partendo da tale forte presupposto, il governo catalano aveva tentato di negoziare con quello di Madrid la soluzione forale, secondo la quale avrebbe potuto incassare tutto il gettito dei tributi statali (e non più il solo 50% sancito nel 2009) impegnandosi a dare in cambio un contributo al bilancio centrale a titolo di pagamento per i servizi statali fruiti e di solidarietà interterritoriale. La risposta di Madrid fu un “no” secco, basato sui principi costituzionali. Del resto non ci si poteva aspettare altro da un governo centrale che aveva evitato di condividere la gestione dei tributi con la Agenzia delle Entrate catalana come previsto da una legge del 2006: vedasi fase di ri-centralizzazione sopra menzionata. Il resto è cosa nota: sappiamo cos’è successo il 1 ottobre 2017 e cosa sta succedendo ancora a mesi di distanza da quel triste evento.
A cinque anni di distanza da quell’infelice rifiuto di Madrid, gli studiosi barcellonesi (vedi IEB Report 1/2017) riaffermano la necessità che la Catalogna disponga di un suo proprio “tesoro finanziario” consistente nella piena autonomia fiscale e tributaria (e ciò anche in linea con i dettami della teoria del federalismo fiscale detta “di Seconda Generazione”) sia nell’ambito dell’attuale Stato spagnolo unito, sia in una situazione di totale indipendenza, nella quale in Catalogna anche molti stimati accademici continuano a sperare. In questo secondo scenario gli economisti catalani suggerirebbero di gestire il “tesoro finanziario” ponendo attenzione soprattutto a due aspetti: i) l’evasione fiscale (stimata in Catalogna attorno al 22%, a fronte di una media europea del 40% e che si vorrebbe il nuovo governo indipendente portasse ai livelli “nordici” del 10-15%); ii) l’amministrazione tributaria nel suo complesso, che verrebbe potenziata ed “efficientata” (anche tramite un aumento degli addetti) nel senso di rendere più percepibile dal contribuente il controvalore dei servizi ricevuti dal (nuovo) Stato autonomo, e dunque il versante onesto e trasparente e non più quello oppressivo (vigente attualmente, dicono gli economisti) del tributo pagato.
Non vi è dubbio che il “laboratorio spagnolo” potrà insegnare qualcosa a chi, in Italia, sta lavorando sull'”autonomia differenziata” di Regioni leader com’è in Spagna la Catalogna.