Uno sguardo alla storia del Medio oriente dopo la fine della seconda guerra mondiale e i successivi decenni di guerra fredda può servire a capire un po’ di più cosa sta succedendo in questa travagliata regione.
Alla fine degli anni 50 una serie di movimenti nazionalisti e panarabi, a volte con coloritura socialista, antioccidentali e quindi filosovietici, prese il potere in molti Paesi arabi, quasi sempre con colpi di Stato militari. Il processo iniziò in Egitto con la cacciata del filoinglese re Farouk, la proclamazione nel 1953 della repubblica e il formarsi di quel movimento politico-militare che prenderà il nome di “nasserismo”, dal colonnello Gamal Abd el-Nasser, uno degli autori del golpe. Dopo un analogo colpo di Stato, fu la volta della Siria che, nel 1958, formò con l’Egitto la Repubblica Araba Unita, sciolta nel 1963 quando il potere passò al partito socialista del Ba’th, tuttora al governo con Assad. Sempre nel 1958, i militari in Iraq rovesciarono la dinastia hascemita, cui appartiene l’attuale re di Giordania. Come in Siria, anche qui il potere passò poi al Ba’th e, nel 1979, a Saddam Hussein. Nel 1969, con la deposizione del re Idris, un gruppo di ufficiali nasseriani diede vita alla Repubblica Araba di Libia e alla dittatura di Muammar Gheddafi.
La caratteristica che contraddistingue queste dittature militari è la laicità dello Stato, qualità comune anche ai regimi di altri Stati non arabi della regione: la Repubblica turca istituita dopo la prima guerra mondiale dai Giovani Turchi di Atatürk e l’Iran della dinastia Pahlavi, entrambi però filooccidentali e non ostili a Israele.
Un primo radicale cambiamento in questo scenario è avvenuto nel 1979 in Iran, con l’esilio dello scià Reza Pahlavi e la costituzione della Repubblica islamica degli ayatollah. Con l’avvento al potere di Erdogan nel 2003, anche la Turchia ha abbandonato il precedente laicismo, passando a un regime sempre più confessionale. Nello stesso anno, l’invasione angloamericana dell’Iraq e la conseguente caduta della dittatura di Hussein hanno lasciato il Paese in una situazione instabile, resa ancor più grave dalla nascita dello stato islamico dell’Isis. Le successive “primavere arabe” hanno completato la trasformazione, ma non nel senso sperato dagli americani: dopo la parentesi autoritaria del regime islamico dei Fratelli musulmani, in Egitto sono tornati al governo gli altrettanto autoritari militari; in Libia, al regime di Gheddafi è succeduto il caos; in Siria è ancora in corso una tragica guerra civile, ma Bashar Assad è ancora in sella. Questo quadro, insieme a quanto avviene nel lontano Afghanistan, descrive il sostanziale fallimento del velleitario nation building tanto caro alle élite americane.
In questo contesto l’Arabia Saudita rappresenta un’eccezione, in quanto la monarchia saudita fin dal suo inizio, tra le due guerre mondiali, ha fatto propria la posizione fondamentalista wahabita. Lo scontro tra Riyadh e Teheran per l’egemonia nella regione si trasforma così anche in un conflitto religioso. L’Arabia Saudita vuol porsi come guida del mondo arabo sunnita, mentre l’Iran, principale paese del mondo sciita, è diventato punto di riferimento anche per gli sciiti arabi, in Siria, Iraq, Yemen.
La radicalizzazione in atto mette in difficoltà soprattutto il Libano, come dimostrano i recenti avvenimenti. Il Paese, con molta fatica, ha ritrovato tra le sue varie componenti un assetto stabile, benché molto fragile, che potrebbe essere un possibile modello anche per altre situazioni dell’area. E’ pensabile che la maggioranza dei libanesi, anche all’interno dell’estremista Hezbollah, non sia disposta a trasformare nuovamente il Paese in un campo di battaglia delle varie fazioni, interne o esterne, come sta avvenendo nella confinante Siria.
Questo sempre più diffuso confessionalismo, anche al di fuori del Medio oriente, ha come conseguenza la continua crescita dell’estremismo, diretto alla violenta affermazione della propria visione dell’islam. Una jihad che si svolge anche all’interno del mondo islamico, come evidenzia il conflitto tra sunniti e sciiti, o il recente tragico attacco a una moschea nel Sinai appartenente alla fraternità mistica dei sufi.
Anche Israele e i suoi avversari palestinesi non sono rimasti immuni da questo processo. Israele è nato come Stato laico e con decise valenze socialiste: si pensi all’importante esperienza dei kibbuzzim, le fattorie cooperative. Negli ultimi anni si è però assistito a un sempre maggior ruolo dei partiti confessionali ebrei e al ripetuto tentativo di passare da un’accezione nazionale del concetto di ebraismo a una esclusivamente religiosa. Non a caso sono in continuo aumento le difficoltà poste alle altre religioni, compresa la cristiana.
Anche l’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, è sorta sull’onda dei movimenti laici e socialistizzanti e ha mantenuto queste caratteristiche in Fatah, dominante in Cisgiordania. Nel 1987 viene però fondata Hamas, con forti connotati islamisti e collegata al movimento dei Fratelli musulmani, che attualmente controlla la Striscia di Gaza. Il conflitto tra le due fazioni palestinesi, sfociato anche in scontri armati, ha indebolito i palestinesi e le posizioni estremiste di Hamas hanno probabilmente facilitato anche una certa radicalizzazione della società e della politica israeliane.
Tuttavia, proprio dalla Palestina può forse arrivare un’inversione di tendenza, con il recente accordo tra Fatah e Hamas che potrebbe portare a nuove congiunte elezioni il prossimo anno. L’accordo, sponsorizzato dall’Egitto, ha alla sua base la necessità per entrambe le organizzazioni palestinesi di superare le loro difficoltà interne. Non si tratta di un percorso facile, ma che sarebbe nell’interesse di tutti, non solo dei palestinesi e di Israele, cercare di portare al successo.