“Il dominio del mondo passa attraverso il dominio dell’Africa, come il pensiero ottocentesco aveva bene inteso durante la prima colonizzazione capitalistica”: così si esprime Giulio Sapelli, ordinario di storia economica nell’Università degli Studi di Milano e grande esperto di geopolitica mondiale. Un dominio che non è più lo sfruttamento militare e commerciale spietato di quel periodo storico, ma che, dice ancora Sapelli, “davanti al cambio epocale di regimi che l’Africa sta vivendo in questo periodo, può aprire a una collaborazione economica fruttuosa per tutte le parti”. Questo il senso del viaggio del nostro premier Gentiloni in Costa d’Avorio, Ghana e Angola, aprire una diplomazia commerciale che vada oltre i soliti Egitto e Libia, in un momento in cui la Cina si sta già impossessando di ampie parti del continente, seguita a ruota da Parigi e Berlino.



Professore, è d’accordo con l’identificare il viaggio di Gentiloni in Africa come il tentativo di aprire una diplomazia commerciale, ancorché in netto ritardo rispetto a paesi come la Francia e la Cina?

Senz’altro, direi che è la chiave di lettura più centrata. In Europa si è aperto un ciclo nuovo, sta ritornando una forma di neocolonialismo che non è più l’imperialismo classico ma che ha la più spiccata novità nell’impegno preso dai tedeschi nel Sub Sahel dove hanno preso parte con i francesi a operazioni militari. Una occasione a cui dovevamo prendere parte anche noi, ma non l’abbiamo fatto e questo è stato un grave errore.



In che senso?

Gentiloni quando era ministro degli Esteri aveva già posto, giustamente, la questione africana, nel modo in cui andrebbe considerata, e cioè di politica interna e non estera. Mi ha stupito che non abbia proseguito su quella strada.

Cosa intende per questione interna?

L’Africa e l’Italia dalla fine dell’800 hanno avuto un cammino comune, essa ha sempre influito nella nostra politica interna sin da prima dell’età giolittiana. Ricordiamoci che l’Onu alla fine della seconda guerra mondiale ci aveva dato il protettorato di Eritrea e Somalia, paesi di cui poi ci siamo dimenticati. Il grave errore di non mandare un contingente di pace dopo le buone prove che abbiamo sempre fatto in Libano e altri paesi ci ha danneggiati e tagliati fuori.



Con il viaggio di Gentiloni potremmo tornare in gioco?

Gentiloni fa bene a muoversi, sostanzialmente segue le tracce dell’Eni, ad esempio in Angola, ma è necessaria una politica estera a più ampio raggi delle sole postazioni Eni.

In che modo?

Ci vuole un impegno finanziario notevole come ha fatto l’Europa, adesso sono stati posti 4 miliardi di finanziamenti europei e altri 54 di finanziamenti privati, ma sono ancora pochi anche perché i cinesi sono presenti in Africa ormai in modo massiccio, con forze militari a Gibuti e una forza economica nell’Africa subsahariana.

Il problema dei trafficanti di uomini e tutto quello che comporta sarà di intralcio?

Il traffico di uomini va risolto e lo si fa facendo la guerra ai trafficanti, così come fecero gli inglesi con i commercianti di schiavi nell’800. Bisogna che l’Onu li combatta, bisogna eliminarli fisicamente. 

Il Congo è da sempre la regione più ricca dell’Africa, chi la controlla oggi?

Chi controlla il Congo non controlla solo l’Africa ma controlla il mondo. In Congo c’è la più grande fonte d’acqua di tutto il mondo, c’è energia, ci sono materiali rari. Il Congo non era neanche una colonia, ma il patrimonio privato del re Leopoldo del Belgio. Oggi non lo ricorda nessuno ma in Congo ci fu una rivoluzione marxista a cui prese parte anche Che Guevara. Durante la guerra fredda l’Unione sovietica controllava il Congo ma non aveva le capacità per sfruttarlo, e gli americani non lo avrebbero permesso. 

Oggi?

Dal 2001 governa Kabila figlio del capo rivoluzionario, ma il paese è diviso in una guerra civile devastante. La Chiesa cattolica è la forza più importante di mediazione nell’Africa nera e ha lavorato molto in Congo, però Kabila non se ne va. Dovremmo essere noi italiani a prendere un’iniziativa, visto che Roma è il cuore della Chiesa cattolica mondiale e smetterla di lambiccarci la testa con Angola e Mozambico. Abbiamo visto adesso in Zimbabwe che la vecchia generazione dei rivoluzionari anticolonialisti sta finendo. C’è un cambio di regime in Africa, ed è di questi nuovi regimi che l’Italia si deve occupare.