Il Giappone aveva captato segnali radio che potevano far presagire un nuovo test missilistico nordcoreano e così è stato. Alle prime ore del mattino di ieri, il regime di Pyongyang ha lanciato un missile balistico, che ha viaggiato per 620 miglia prima di inabissarsi in prossimità delle acque territoriali giapponesi. Si tratta del più potente vettore mai lanciato dalla Nord Corea ed è il primo in grado di colpire obiettivi in tutto il territorio degli Stati Uniti. Ma non sono gli Usa ad essere nel mirino di Kim Jong-un, spiega Francesco Sisci, editorialista di Asia Times ed esperto del mondo asiatico. “Il lancio è stato fatto contro la Cina, Kim vuole trattare con gli Usa”.
Come fa a dirlo, Sisci?
I lanci nordcoreani sono il campanello d’allarme del mondo intero, ma tra un missile e l’altro la storia va avanti. Negli ultimi tempi c’è stato un forte riavvicinamento tra Cina e Sud Corea. Questo è il primo e più importante antecedente per capire l’ultima mossa di Kim.
E cosa è accaduto?
La Cina ha messo da parte la sua ostilità al Thaad sucoreano (Terminal High Altitude Area Defense, Difesa d’area terminale ad alta quota), il sistema antimissile balistico americano in dotazione a Seul. Questo sistema è stato a lungo un problema politico perché Pechino riteneva che, con la scusa di Pyongyang, in realtà fosse un’arma contro la Cina.
E invece?
Xi Jinping e Moon Jae-in si sono incontrati e hanno concluso che Seul non può rinunciarvi. In cambio i sudcoreani hanno promesso di non dispiegare un secondo sistema. In realtà la trattativa è ancora in corso, la Cina chiede che la Sud Corea ritiri tutte le batterie esistenti, ma Seul per ovvie ragioni è recalcitrante.
Ed è qui che arriva Kim Jong-un.
Esatto. La sua è una mossa per fermare e possibilmente incrinare la convergenza. Il lancio di un missile è un fatto gravissimo, di fronte al quale normalmente tutti rivedono i loro piani. Che il lancio sia stato fatto politicamente contro la Cina, lo dimostra il fatto che Pechino recentemente ha mandato un suo rappresentante a Pyongyang, ma il diplomatico è stato costretto ad un’anticamera di tre giorni prima di incontrare un funzionario nordcoreano non di pari livello. Uno schiaffo.
Dunque il regime teme di finire in un angolo. Con chi vuole parlare?
Cerca l’interlocuzione diretta con gli Stati Uniti. Che in realtà già c’è, perché a New York e in Norvegia ci sono stati degli incontri.
E che cosa vuole Kim Jong-un?
Una sorta di riconoscimento ufficiale della sua potenza nucleare per entrare a pieno titolo nel club dei paesi con l’atomica.
Gli Usa come intendono rispondere?
Forse con un compromesso, con un’accettazione tacita. Ma si aprirebbero subito problemi enormi: se la Nord Corea entra nel club dell’atomica, perché Sud Corea e Giappone dovrebbero starne fuori?
Però ormai il gioco di Kim è scoperto.
Sì ma è la conclusione a non essere affatto chiara. Non si sa come uscire da questa storia. Un attacco preventivo americano determinerebbe la distruzione della Sud Corea, d’altra parte se gli Usa si arrendono a Kim Jong-un, legittimando il suo ricatto, scatenano la corsa al riarmo di tutta l’Asia. Nessuno sembra avere una via di uscita ragionevole.
Intanto la posizione della Cina si è chiarita.
La sua posizione era già chiara, però Pechino veniva considerata parte del problema. Ora è parte della soluzione.
L’unica strada è un “regime change”?
In teoria sì, ma non si sa come procurarlo. Alla fine degli anni Novanta la rivista cinese “Zhanglue yu guanli” (Strategia e gestione, ndr) di cui facevo parte, propugnò un’invasione, ma l’ipotesi è stata abbandonata. Se si facesse, il regime lancerebbe subito un’atomica contro la Cina.
(Federico Ferraù)