Non si possono capire gli avvenimenti catalani se non inquadrandoli in un più generale contesto internazionale, facendo riferimento, tra le molte trasformazioni che questo contesto ci offre, al cambiamento profondo della partecipazione politica di massa. In questi ultimi venti anni abbiamo posto sempre più l’accento sulla personalizzazione del partito. Fenomeno certo importantissimo e su cui Mauro Calise ha scritto pagine memorabili. Il perché esse siano e restino memorabili sta nel fatto che esse scoperchiavano la divisione che si era verificata tra élites del partito, da un lato, e partecipazione politica delle masse, da un altro. Questo poneva a rischio profondo la democrazia rappresentativa. 



Seguendo Ostrogorsky, il partito politico è la democrazia che si organizza, una celebre frase che Palmito Togliatti ripeteva spesso per far comprendere la trasformazione del comunismo italiano da partito “cospirativo” di quadri a partito di massa. Stein Rokkan ci aveva poi insegnato che solo i partiti di massa potevano organizzare la democrazia nelle società di massa perché erano partiti “catch all”, ossia partiti non classisti o quantomeno solo moderatamente classisti. E questo spiegava l’essenza della partecipazione politica di massa nella società di massa, ossia la costante vittoria dei partiti di centro, ovvero della partecipazione politica di centro che attirava verso di essa anche élites partitiche di destra e di sinistra. Col partito personale pareva che tutto questo fosse finito. 



Ci sbagliavamo tutti. Io mi ero sbagliato solo in parte, anche se non mi ero dedicato con così grande passione alla questione perché nel mio libro del 1994 “Europe since 1945. Portugal, Spain, Italy, Greece and Turkey: Tradition and Modernity” avevo elaborato il concetto di neocaciquismo, formulato ispirandomi al libro di Joaquin Costa nel suo libro seminale “Espana y Oligarchia” del 1906. A parer mio i partiti sud europei tendevano verso una strutturazione neocaciquista, ossia di un capo (il caciquo) circondato da fieles (i cosiddetti cerchi magici) che garantivano sia i finanziamenti dalla società civile, sia la mobilitazione di massa in occasione delle elezioni. 



La Catalogna dimostra che questo schema era troppo dicotomico e, se vogliamo passare da un modello descrittivo a un modello predittivo, troppo ottimista. Vediamo di spiegare cosa intendo dire. Partiamo dalle élites. Nel caso della Catalogna non siamo più davanti alle élites del tradizionale nazionalismo catalano, che di fatto comincia a dar prova di sé dal 1714, ossia a partire dall’assedio di Barcellona da parte dei Borboni nel corso delle guerre per la successione spagnola, come spiega bene Pierre Vilar nella sua fondamentale opera di storia della Catalogna, non a caso pubblicato a Parigi durante l’esilio franchista. La borghesia catalana si forma precocemente, grazie anche alle misure protezionistiche promosse dallo Stato centralizzato spagnolo e via via si rafforza grazie all’esoterismo massonico che non ostacola tuttavia l’implementazione nel Novecento, dopo la perdita di Cuba a seguito della sconfitta da parte degli Usa, in movimento di massa sia borghese sia popolare, che sopravviverà al franchismo per poi contribuire alla scrittura della Costituzione nel 1978. 

Le variegate élites attuali del nazionalismo indipendentista catalano non hanno nulla a che vedere con questa tradizione, nobile e illustre. Essa è stata travolta da un’ondata di pratiche corruttive di un’intensità così devastante quale raramente è dato trovare in Europa. Si trattò di una decadenza impersonificata dalla traiettoria politica e umana di Jordi Pujol, ex Presidente catalano, e capo storico diConvergencia democratica de Catalunya, la famiglia del quale diede luogo a fenomeni di corruzione che favorirono l’emersione di élites improvvisate e senza cultura politica. Basta sentire parlare Puigdemont e ricordare che l’unica sua formazione politica, prima di assurgere alla carica di Presidente catalano, è stata quella di sindaco di un piccolo pueblito delle colline catalane, famose per i loro magnifici vini rossi (i poblet). Se si guarda al contenuto del loro eloquio politico, si rimane sconcertati: non conoscono la storia catalana, i riferimenti culturali che fanno a essa sono tutti sbagliati e sono facile preda di quel neocentralismo impersonificato bene da Ciudadanos a cui le élites castigliane hanno dato vita, come dimostra la vicenda in corso e il comportamento a dir poco non politico, ma solo amministrativo, di Mariano Rajoy, Presidente del Partito popolare spagnolo. Ma proseguiamo nel nostro discorso sulla nuova partecipazione politica di massa. 

Il caso catalano è la manifestazione che il partito personale non significava affatto, come dicevo, la fine della partecipazione politica di massa. Le piazze, le strade di Barcellona, e delle altre città catalane, sono state invase da decine di migliaia di persone che tuttavia nulla veramente sanno né della storia catalana, né di cosa essa significhi o abbia significato nel complesso sistema di potere che ha consentito alla borghesia catalana, bancaria e industriale, e alla borghesia castigliana, amministrativa e bancaria, di elaborare continui compromessi sin da subito dopo il crollo del franchismo. Questi compromessi sono stati spazzati via da una nuova forma di partecipazione politica di massa di origine sociale principalmente piccolo-borghese e sottoproletaria alimentata da quella schiera infinita di deracines a cui la deflazione consente di sopravvivere grazie a lavori occasionali e a una riproduzione sociale tanto della forza lavoro quanto dell’esercito industriale di riserva a costi riproduttivi sempre più bassi, grazie al crollo dei prezzi. 

È quello che io chiamo il popolo degli abissi, che ha come obiettivo unificante la distruzione delle élites, quali che esse siano, e l’affermazione di una “comunità sbagliata”, ossia l’identità etnico-localista, l’apoteosi della tradizione che come sostanza magica consente di superare la paura e l’angoscia dell’esistenza (attualità permanente dell’indimenticabile saggio scritto per spiegare l’affermazione di massa del nazismo, da Franz Neumann: “Angoscia e politica”). Un grumo di disperazione, di assalto al cielo, di follia dell’ignoranza che David Riesman aveva già anticipato sessant’anni fa, nel suo grande capolavoro “La folla solitaria”. 

La crisi dell’ordocapitalismo liberistico produce mostri come quello del neoindipendentismo catalano, che era stato purtroppo blandito e coccolato, e politicamente non contestato, dalle riforme costituzionali di Zapatero nel 2006. Egli aveva pensato di rispondere alla crisi dello storico nazionalismo, cui ho fatto cenno, ampliando i gradi di autonomia e di egoismo fiscale, accendendo quindi la brace che covava sotto la cenere. Orbene: la capacità di distinguere è la prima qualità di colui che analizza la società, e questo va sottolineato. Ma la Catalogna non è un caso a sé. Forme di queste nuove endiadi tra élites deboli e culturalmente inferme e partecipazioni politiche di massa, fortemente inconsapevoli della realtà e prede di miti illusori, stanno proliferando non solo in Europa, ma in tutto il mondo. 

Tutto iniziò in Sudamerica, quando la fuoriuscita dalle dittature militari volute dagli Usa in Cile, Argentina e Brasile sconvolse antichissime subculture politiche a partire dall’Apra peruviana per finire con il radicalismo argentino. Gli Stati Uniti sono su questa via di degradazione intellettuale delle élites e di nuove forme della partecipazione politica di massa con il succedersi delle tre famiglie oligo-finanziarie neo imperialiste Clinton-Bush-Obama: Trump ne è la manifestazione. L’Europa, grazie all’ordoliberalismus che si trasforma in potenza politica, dà vita a fenomeni più variegati che vanno dai Neofeschist austriaci (neofascisti in cachemire) ad Alternative für Deutschland in Germania, ai grillini in Italia, agli orbaniani in Ungheria, in Cechia, sino a giungere ai Brexiter nel Regno Unito. 

Molti si chiedono, in questo contesto, perché l’Unione europea, nelle sue variegate forme istituzionali, non abbia compiuto un’opera di mediazione. In realtà, essa non era possibile. In primo luogo per il basso livello dei capi della partecipazione politica indipendentista (Puigdemont pare fuggire nelle braccia dei nazionalisti fiamminghi, quasi come un Re d’Italia che era fuggito dai suoi doveri monarchici dinanzi alle orde naziste) e per l’incapacità politica dei vertici stessi dell’Unione europea. Del resto, chi di noi darebbe credito, una volta scesi dai loro scranni tecnocratici di second’ordine, a uno Juncker, a un Tusk, eccetera, eccetera?