Martedì scorso si è concluso il settimo round dei colloqui di pace di Astana. Alle trattative, svolte nella capitale kazaka, hanno partecipato oltre agli stati garanti (Russia, Turchia e Iran), le delegazioni dell’opposizione armata, del governo siriano, della Giordania, dell’Onu e degli Stati Uniti. Al termine dei due giorni di incontri, il formato tripartito dei paesi garanti ha espresso soddisfazione per il miglioramento della situazione nelle zone di de-escalation e per i progressi nella lotta contro il terrorismo.



Irrisolto invece il secondo punto dell’agenda che riguardava la liberazione degli ostaggi, lo scambio di prigionieri, il trasferimento dei corpi dei caduti e la ricerca di persone scomparse, nonché l’elaborazione di un progetto comune per l’avvio degli sminamenti umanitari.

Questi temi comunque saranno discussi ulteriormente dai gruppi di lavoro e potranno essere risolti solo mettendo al primo posto lo scopo degli incontri e non le reciproche recriminazioni. 



Le consultazioni sono comunque servite come piattaforma per promuovere un accordo politico in vista dei negoziati di pace convocati per il 28 novembre a Ginevra dal mediatore dell’Onu Staffan de Mistura.

Una ulteriore facilitazione per i negoziati di Ginevra sarà la realizzazione del forum inter-siriano che si svolgerà a Sochi il 18 novembre. L’evento, battezzato con il nome di “Congresso Nazionale della riconciliazione siriana”, è stato costruito intorno alla convinzione che la soluzione per la crisi debba essere necessariamente siriana.  Quindi per soddisfare questa esigenza, il ministero della Difesa russo non ha invitato solo le opposizioni armate ma anche tutti i gruppi tribali, etnici e religiosi esistenti in Siria. Infatti, la lista dei convocati — predisposta da Mosca ed approvata da Damasco — comprende circa 1.500 delegati suddivisi in 33 partiti e movimenti, tra cui anche diversi gruppi curdi.



L’elenco degli invitati include, tra l’altro, il partito arabo-socialista, il Fronte popolare per il cambiamento e la liberazione, l’Alto Comitato di negoziazione e il fronte sud dell’Esercito libero siriano (Esl). Per rappresentare la parte curda, sono state invitate tre organizzazioni: l’Unione democratica, il Partito democratico del Kurdistan siriano (il partito dell’Unione democratica curda) e il Consiglio nazionale curdo.

Secondo il documento pubblicato dal ministero degli Esteri russo, sono state invitate non solo le organizzazioni dell’opposizione siriana presenti in Siria ma anche quelle con sede all’estero; sta a dire a Damasco, al Cairo, a Riad, a Istanbul, a Parigi, a Ginevra ed a Madrid.

Purtroppo — benché le opposizioni siano ampiamente rappresentate — l’Alto comitato per i negoziati che raggruppa le milizie armate, ha recepito il forum inter-siriano come un tentativo di sostituirsi alle trattative di pace di Ginevra sotto l’egida dell’Onu. Ma questa motivazione non appare veritiera: in realtà è la reazione scomposta di chi, ad un tratto, si vede tirar via il tappeto rosso da sotto i piedi. Ciò che invece nasconde la bocciatura opposta dall’opposizione armata al Congresso di Sochi, è che l’apertura di un dialogo pluralistico delle varie realtà del paese, possa ridimensionare la sua importanza.

Inutile dire che l’iniziativa non piace neanche agli Stati Uniti che delle opposizioni armate sono stati concreti sostenitori. Washington teme che una soluzione “siriana” del conflitto possa rendere vano il tentativo di estromissione di Assad e quindi il soddisfacimento degli interessi geopolitici per cui la guerra è iniziata. Un segnale in questo senso è stato dato il 30 ottobre dal Segretario di Stato Rex Tillerson che in una audizione al Comitato per le relazioni esterne del Senato americano ha riferito che l’amministrazione americana sta lavorando per un’ulteriore zona di de-escalation al nord della Siria. Sta a dire che gli Stati Uniti  stanno lavorando per stabilire un protettorato al nord della Siria sui territori sottratti dai curdi ad Isis (pretestuosamente giustificato dalla necessità di difendere le aspirazioni di indipendenza curde).

E’ chiaro che se tutto questo si concretizzasse, si realizzerebbe un’occupazione del nord della Siria tramite un’azione unilaterale, che di fatto sottrarrebbe al governo centrale il 70 per cento delle risorse petrolifere e di fatto corrisponderebbe alla divisione del paese; il che annullerebbe tutti gli sforzi dell’Onu e del formato tripartito degli stati garanti ad Astana.

Il vecchio “piano B” di spartizione della Siria potrebbe essere completato dall’occupazione del Golan e del sud del Libano da parte di Israele. In questo senso, il pretesto sarebbe fornito dalla crescente irritazione di Tel Aviv per la presenza di truppe iraniane in Siria. 

Accanto a queste evidenze, non sfugge che è in atto il solito “clima preparatorio” che ha contraddistinto nel recente passato le azioni militari unilaterali: queste azioni — al di là delle veridicità delle prove che si mostrano per giustificarle — hanno il torto tremendo di focalizzare un interesse particolare a discapito di un interesse generale, che è l’urgenza del paese di porre fine alle ostilità.