La dichiarazione di Donald Trump di voler spostare l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme ha suscitato un esteso disaccordo nei Paesi arabi e musulmani e tra gli alleati europei. La decisione di Trump rompe infatti una situazione di stallo che sembrava andare bene a molti, sia pure per ragioni diverse. Eppure, Trump si è limitato a rendere esecutiva una decisione del Congresso del 1995, la cui attuazione è stata continuamente rinviata dai presidenti che lo hanno preceduto. Ci si può chiedere perché proprio ora questa decisione e qualche elemento interessante è messo in luce dall’analisi fatta da Sherif el Sebaie, corrispondente egiziano di Panorama, nella sua ultima intervista.



Dopo aver sottolineato che Gerusalemme è già di fatto la capitale di Israele, Sebaie pone in rilievo un dato non del tutto usuale per i politici: a differenza dei suoi predecessori, Trump ha tenuto fede alle promesse fatte in campagna elettorale. La politica interna ha senza dubbio parte nella sua decisione, data la notevole influenza della comunità ebraica statunitense e la costante necessità per Trump di sottolineare la diversità della sua politica estera nei confronti di quella, non certo esaltante, di Obama. Sebaie aggiunge poi un elemento ormai inevitabile in ogni analisi sul Medio Oriente: la contrapposizione tra Arabia Saudita e l’Iran. L’ostilità verso l’Iran accomuna Israele ai sauditi e Trump, alleato di entrambi e anche fortemente avverso al regime di Teheran, può aver giudicato giunto il momento di attuare quella più che ventennale decisione del Congresso.



Pur rischiosa, la mossa di Trump potrebbe rivelarsi utile a molte parti in causa, a partire da Israele, che in questi decenni si è affermato come un imprescindibile attore sulla scena mediorientale. La soluzione della questione palestinese sarebbe il coronamento della lunga lotta per la propria esistenza, e forse questa idea sta sempre più facendosi strada nell’opinione pubblica israeliana, se non nei suoi governanti. 

Sull’altro fronte, la sistemazione del problema è sempre più urgente per Egitto e Giordania, unici Stati arabi ad aver firmato la pace con Israele e più direttamente esposti alle vicende palestinesi. Al di là dei toni “vivaci” di Erdogan verso la decisione di Trump, l’interesse principale della Turchia è affermare la propria guida del mondo musulmano come erede dell’Impero ottomano, in contrasto con i sauditi custodi dei Luoghi Santi e con l’Iran sciita. Per quest’ultimo, la soluzione della questione palestinese potrebbe rappresentare un’efficace arma di propaganda nel mondo musulmano come unico reale difensore di una Palestina solo dei palestinesi.



La parte più debole restano i palestinesi, anche per le irrisolte divisioni al loro interno, ma è evidente la loro sostanziale accettazione di Israele, al di là dei proclami e di quanto tuttora scritto nei loro statuti. Ciò vale anche per Hamas, sotto attacco dei movimenti più estremisti presenti a Gaza, ma che difficilmente potrebbe rischiare una nuova guerra frontale contro Israele.

La geopolitica sembra quindi dominare la vicenda, che poco ha a che fare con il diritto internazionale o con le decisioni dell’Onu, violate fin dal 1948 dagli Stati arabi con il tentativo di eliminare militarmente il costituendo Stato di Israele. Dal 1967 Israele occupa militarmente, quindi illegalmente, Gerusalemme Est e Cisgiordania, ma questi territori erano già dal 1948 militarmente, quindi altrettanto illegalmente, occupati dalla Transgiordania, poi divenuta Giordania. La Striscia di Gaza è rimasta sotto amministrazione militare egiziana dal 1948 al 1967, quando è stata occupata dagli israeliani, che si sono poi ritirati unilateralmente nel 1994, costringendo i coloni ebrei ad abbandonare le colonie e a rientrare in Israele. E’ difficile che Israele adotti la stessa dura politica nei confronti delle colonie a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ma il loro mantenimento potrebbe essere oggetto di scambio con il riconoscimento israeliano di Gerusalemme Est, o almeno di una parte di essa, come capitale dello Stato palestinese.

In questo quadro va inserita un’altra dichiarazione, quella di Vladimir Putin sul prossimo parziale ritiro delle truppe russe dalla Siria, anch’essa dettata in parte da necessità di politica interna. Il protagonismo russo nella lotta all’Isis e nel sostegno al governo di Bashar al Assad, con il conseguente mantenimento e potenziamento delle basi aeree e navali in territorio siriano, ha senz’altro rafforzato Putin. Dall’altro lato, però, cominciano a pesare negativamente i costi finanziari, ma soprattutto le perdite umane, di questo intervento e in Russia è ancora ben presente il ricordo della catastrofica avventura in Afghanistan. 

Putin ha però inviato anche un ben preciso segnale agli altri attori nello scacchiere, in primo luogo all’Iran: finora Mosca ha sostanzialmente condiviso gli obiettivi di Teheran, ma non ha alcuna intenzione di seguire l’Iran nella sua lotta contro il mondo sunnita. La diplomazia russa è infatti molto attiva nel tentativo di instaurare collaborazioni a 360 gradi nella regione, con Egitto, Turchia, Arabia Saudita e anche con Israele, in cui gli ebrei di origine russa giocano un ruolo sempre più importante. Raggiunti i propri obiettivi in Siria, in particolare con la base navale sul Mediterraneo, sarebbe pericoloso per Putin farsi attivamente coinvolgere nei complicati conflitti regionali. Questa sembrava peraltro, almeno inizialmente, anche l’intenzione di Trump, ma i fatti sembrano andare in un’altra direzione.

Come sempre, ogni analisi sul Medio Oriente deve essere presa solo come una possibile ipotesi, che può essere messa in crisi anche dal più piccolo imprevisto. Ma vale la pena di tener accesa la speranza che nel 2018, dopo settant’anni dalla prima guerra arabo -israeliana, possa attuarsi una ragionevole pace estesa a tutti i contendenti.