Ormai è passato più di un mese dalla sparizione del sottomarino “ARA San Juan” senza che si ritrovi, nonostante l’enorme sforzo operativo a livello mondiale organizzato con strumenti di ultima tecnologia. Fin dai primi giorni delle ricerche le speranze di trovare in vita i membri dell’equipaggio erano ridotte al minimo, perché il particolare della mancanza di attivazione di qualsiasi sistema di emergenza dei tanti presenti a bordo da parte di persone dotate di un addestramento estremo faceva presagire che il sottomarino avesse sofferto di un inconveniente improvviso tale da impedire qualsiasi reazione.
La cosa che però colpisce è la gestione della comunicazione sull’accaduto fatta dall’Ammiragliato Argentino, che ha nascosto informazioni importanti dapprima sulle comunicazioni con il Comandante del mezzo e poi riguardo ad altri dati importanti. Dapprima si era parlato di una semplice mancanza di comunicazione che, solo dopo 48 ore (come prevede il protocollo militare) di incomunicabilità, si è trasformata in un allarme che ha attivato le ricerche. Poi, con il trascorrere dei giorni, si è saputo che era stato comunicato un problema alle batterie, dato ulteriormente ampliato giorni dopo con una rottura dello snorkel che ha fatto imbarcare acqua al sottomarino.
A questo punto erano circolate voci, nel bel mezzo delle operazioni di ricerca, che escludevano di poter ritrovare in vita l’equipaggio, gettando nella disperazione i parenti dei marinai. Stato peggiorato allorquando iniziarono a circolare notizie di un’esplosione, registrata da organismi preposti sia americani che mondiali (un istituto con sede a Vienna con il compito di monitorare quelle eventualmente nucleari). Si era trattato di un’esplosione di grado elevato, ma non nucleare, registrata proprio nella zona dove doveva trovarsi l’ARA San Juan. Si iniziò così a parlare di una deflagrazione provocata dal contatto dell’imponente sistema di batterie con l’acqua, fatto che genera idrogeno puro, gas fulminante se respirato, oltreché dotato di un grande potere esplosivo.
Il problema però risiede nel fatto che la struttura di un sottomarino, in grado di resistere a elevatissime pressioni, non avrebbe permesso il rilevamento di uno scoppio di elevata intensità, “tappandola” verso l’esterno. La deduzione quindi è quella di una deflagrazione esterna, visto anche che un esperimento fatto dalla Marina Argentina con dinamite avrebbe rilevato gli stessi dati forniti in precedenza dalle organizzazioni straniere. Ma a questo punto cosa può essere successo veramente, considerando pure il fatto che le minuziosissime ricerche che hanno implicato l’esplorazione di un’area abbastanza vasta, non hanno fornito nemmeno un dato utile alla ricerca del sottomarino? Mezzi messi a disposizione dalla Russia, in grado di esplorare fino a 6.000 metri di profondità, hanno stranamente interrotto il flusso di informazioni e, come la maggior parte dell’imponente flotta internazionale, si sono ritirati quando sono finite le speranze di ritrovare in vita l’equipaggio.
Ora solo tre navi dedicate, appartenenti alla Marina Argentina, sono impegnate nelle ricerche, ma senza esito: i parenti delle vittime insistono perché anche queste ultime manovre non vengano interrotte, ma pure la pressione mediatica sull’avvenimento è diminuita fino a sparire.
Triste vicenda che lascia presagire come l’ARA San Juan sia sepolto per sempre nel profondo del mare, tomba dei suoi 44 marinai, con tutti i suoi segreti che sarà arduo, se non impossibile, scoprire.