Nel giro di un paio di anni la grande, generosa speranza di un’Europa compatta nell’Unione Europea si sta lentamente, ma inesorabilmente sgretolando. I sintomi di un tramonto ideale sono cominciati nel 2005, con un allargamento scriteriato dell’Unione. Poi è arrivata la Brexit, le continue “incomprensioni” in Commissione  tra gli Stati. Ora lo strappo catalano, che non è contro l’Europa direttamente, ma di sponda contro la madre patria di un Paese decisivo per questa Europa.



Un continente che era partito dalla realizzazione di grandi ideali, da mettere in comune o da federare (anche con soluzioni istituzionali innovative), si è lentamente ridotto a un’unità monetaria o, più prosaicamente, a una sorta di grande ragioneria inter-statale con la Germania a capo del tavolo della contabilità.



In queste condizioni, la crisi economico-finanziaria del 2007-2008 non ha fatto altro che accelerare l’immagine di una sorta di diffidente e fittizia comunità, che ricorda solo lontanamente lo spirito unitario dei “padri fondatori” o anche di protagonisti più recenti come Jacques Delors. 

Il nuovo risultato del referendum catalano, il secondo nella spazio di pochi mesi, ribadisce un sintomo di disgregazione in atto di cui nessuno sembra ancora rendersi veramente conto e in fondo nessuno sembra porvi seriamente rimedio. Come si può far convivere, separate statualmente tra loro, Catalogna e Spagna quando è in atto un processo unitario a livello continentale? Un paradosso.



E’ addirittura incredibile la scarsa capacità di lettura della realtà che hanno i nostri media italiani di fronte ai fatti che accadono. Si erano quasi dimenticati, fino all’altro ieri, della questione spagnola oppure l’avevano relegata alla vigilia del voto referendario nelle pagine da riempire quasi con distrazione, dando l’impressione, o forse sperando, che tutto si aggiustasse. 

Invece la coalizione degli indipendentisti catalani, guidata da personaggi messi in prigione dal governo di Madrid, oppure riparati all’estero per sfuggire alla giustizia spagnola, ha rivinto le elezioni, come era avvenuto il 1° ottobre, spiazzando tutti i “grandi osservatori” e riaprendo la questione spagnola in tutta la sua drammaticità, aggravata dall’atteggiamento europeo, da quello che era accaduto nel precedente referendum e dalla cocciutaggine di un leader (Rajoy) inventato a Berlino e a Bruxelles, ma incapace di comprendere il suo popolo o quanto meno di ascoltare una parte importante del suo popolo. L'”inviato speciale” di Angela Merkel e del sempre poco lucido Jean-Claude Juncker, appunto il “popolare” Mariano Rajoy, in Catalogna ha raccolto 3 seggi e, qualsiasi cosa riuscirà ad aggiustare, porterà per sempre sul suo blasone l’insegna del “divisore” incapace e indeciso, prima ancora che dell’Europa della sua Spagna. 

Mariano Rajoy prende tre seggi contro i 70 del blocco indipendentista e contro i 36 seggi degli Unionisti di Ciudadanos, che di fatto rappresentano la Spagna meglio del premier.

Alla fine il separatismo catalano, che ha una lunga storia,  pone ora una questione che non si sa come si possa ricomporre. Tutti parlano di mediazione, dell’intervento dei “Baschi”, della dissuasione operata da più parti. Ma in tutti i casi, l’effetto di una lacerazione storica  e istituzionale, con gente prima picchiata mentre votava e poi con leader che sono stati imprigionati, resterà nella memoria dei catalani e degli spagnoli. 

Mentre si pensa a questa lacerazione, viene spontaneo ritornare alla Brexit, l’abbandono della Gran Bretagna avvenuto ormai da tempo e messo in agenda di conclusione programmatica e burocratica. 

A ben guardare, questo stesso separatismo catalano, pur con le sue particolarità, è figlio di un malessere che attraversa tutta l’Unione Europea, tecnocratica, burocratizzata. Si avverte nei Paesi dell’est che hanno conosciuto il comunismo, ma anche nel cuore della vecchia Europa, come in Francia, in Olanda e persino in Germania, che c’è un sintomo di disgregazione e che la tendenza dei cittadini europei è quella di sentirsi sempre meno europei.

Si guardi solo la parabola italiana nei confronti dell’Unione Europea. Quello che  veniva definito alla fine degli anni Novanta il Paese più europeista dell’Unione, oggi al 62 per cento ritiene che gli interessi italiani non siano presi adeguatamente in considerazione dall’Ue. La percentuale sale al 66 per cento tra i lavoratori manuali e  e tra i disoccupati italiani. In sintesi solo il 44 per cento degli italiani, contro il 43 per cento, ritiene più proficuo restare in Europa per affrontare meglio il futuro. Si pensi infine che solo l’8 per cento degli italiani dice di provare “un senso di appartenenza molto forte” all’Unione Europea. 

Sono i numeri impietosi di una disillusione profonda, provocata probabilmente dalla crisi, ma anche da tutti gli orpelli burocratici di cui fa sfoggio l’Ue e dalla mancanza di una vera e autentica rappresentanza democratica, in un momento dove la stessa democrazia rappresentativa classica appare in difficoltà.

Sarebbe interessante fare paragoni e indagini sul tasso di europeismo che esiste in tutta l’Unione. E’ ragionevole pensare che, vista la crescita di partiti anti-sistema, di aperta contestazione da parte di molte comunità sulla gestione dei migranti, di difficoltà governative che arrivano anche in Paesi noti per la loro stabilità, come in Germania, di una sostanziale svolta a destra di tanti Paesi, l’idea di Europa si stia incrinando e regga soprattutto perché è stata forte la spinta data dai “padri fondatori”, è ancora vivo il trauma di due guerre mondiali e in fondo esiste anche, accanto alla disillusione, il rimpianto di un’occasione che può fallire.

Forse la lezione catalana può essere utile a rivedere le Carte fondamentali dell’Unione europea. Non in modo superficiale, ma con un rinnovato spirito unitario, quanto mai necessario in un momento in cui le altre grandi potenze mondiali stanno cercando accordi e punti di baricentro per configurare un assetto nuovo a tutto il pianeta, che per ora è in profondo disordine. Chissà se l’Europa è in grado i capire tutto questo.