Com’è noto, pochi giorni fa i competenti organi dell’Unione Europea hanno avviato nei confronti della Polonia la procedura di infrazione ai “valori” di cui all’articolo 2 del Trattato Ue. Non si vuole qui entrare nel merito della vicenda, che richiederebbe approfondito esame della condotta contestata — che, secondo le notizie di stampa, consiste nella riforma del sistema giudiziario, ritenuta tale da ledere il principio dello Stato di diritto — da porre a raffronto col catalogo, invero piuttosto generico, dell’articolo 2 del suddetto Trattato (ove si parla di rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, dell’uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze) e soprattutto con la complessa categoria dello Stato di diritto, essendo peraltro noto che essa fa riferimento a strutture organizzative tra loro certo non identiche (lo Stato diritto nel Regno Unito non coincide certo, tantomeno per quanto attiene all’organizzazione del potere giudiziario e delle sue relazioni con gli altri poteri, con quello francese).
La vicenda offre però qualche interessante spunto di riflessione “domestica”. L'”arma” del citato articolo 7, per la prima volta innescata dall’Unione e diretta contro uno dei suoi componenti, minacciando la conseguenza della riduzione “dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati”, è uno di quegli elementi del patto di associazione tra gli Stati europei che ne rivela la peculiarità per la sua obiettiva destinazione ad una trasformazione degli assetti statuali e, più ancora, delle comunità nazionali, che parrebbero destinate a perdere la loro specifica identità per confluire in un più ampio aggregato.
La questione polacca pone un problema molto serio, al quale si deve guardare senza pregiudizi ideologici: è un fatto che la sorveglianza sui modi e sulle forme di autodeterminazione politica delle collettività statuali — ben al di là del generico limite della democrazia — e la sua inclusione tra le condizioni di eguale partecipazione all’Unione Europea implica una decisione sui destini collettivi che, nella prospettiva del nostro diritto costituzionale, ha lo spessore di una scelta istituzionale, pari, per qualità, rilievo ed effetti, a quella del 2 giugno 1946 (non a caso evocata nei dibattiti parlamentari che precedettero l’approvazione della legge costituzionale del 1989, che diede luogo a quel singolare referendum col quale gli italiani consegnarono un mandato costituente ai rappresentanti italiani nel Parlamento europeo, rimasto senza esito per la divergente posizione di altri Stati).
Anche in tale prospettiva si rivela allora il pericoloso difetto, innanzitutto democratico e, quindi, di tutela di essenziali diritti umani, che inficia la nostra partecipazione al “consorzio europeo”. La “favola polacca” parla (anche) di noi: in un futuro magari non tanto lontano, il sindacato valoriale dell’Unione potrebbe appuntarsi su scelte costituzionali italiane, alla sola condizione che gli altri Stati (e magari quelli egemoni) riescano a coagulare il consenso del Parlamento e del Consiglio europei su un’accezione dello Stato di diritto che si ponga in contrasto (retroattivamente!) con quelle scelte.
È da chiedersi come questo si possa conciliare con l’articolo 11 della Costituzione, che, per quanto se ne voglia indebolire la portata precettiva (facendone, come in anni ormai lontani denunciava Luigi Condorelli, una norma chewing gum), presuppone (ed impone) che le limitazioni alla sovranità popolare di cui all’articolo 1 Cost. lascino intatta l’identità nazionale: la finalità (legittimamente) perseguita può infatti essere soltanto quella della pace e della giustizia tra le Nazioni. Non v’è dunque alcun modo perché essa sia tratta a legittimare meccanismi sovranazionali che, per così dire, divorino la loro stessa matrice.
Sarebbe ora che tali temi occupassero l’agenda politica del nostro Paese.