Questa volta l’allarme viene da Seul. A un soldato disertore della Nord Corea sono stati rinvenuti nel sangue gli anticorpi all’antrace. Ciò ha subito fatto pensare che Pyongyang abbia armi batteriologiche o le stia studiando. L’altra novità è la telefonata Tillerson-Lavrov, nella quale il ministro degli esteri russo ha offerto agli Usa la disponibilità di Mosca a mediare con Pyongyang. Il punto di Francesco Sisci, docente nella Renmin University of China, su un puzzle globale in movimento accelerato. “Più del disertore con l’antrace — dice Sisci al sussidiario — mi preoccupano le percentuali date da John Gates, ex segretario alla difesa Usa ed ex direttore della Cia. Ha detto che nel 2018 c’è un 10 per cento di possibilità di conflitto nucleare in Nord Corea. 



Sembra una percentuale bassa.

Sì, ma Gates sottolinea che è aumentata di 9 punti, dall’1 per cento che si registrava nel 2017. Inoltre ha calcolato un 70 per cento di possibilità di soluzione negoziale con Russia e Cina per Pyongyang. Una percentuale alta, ma non troppo.

L’altro fatto è che la Russia si è detta pronta a mediare tra Usa e Nord Corea. Ci siamo persi qualcosa?



La Russia sta mettendo in atto un grande scambio lungo tutta la sua enorme frontiera: ha aiutato Pyongyang ad armarsi e ora in cambio di una sua piena cooperazione probabilmente chiede concessione su due altri fronti che le stanno a cuore, Ucraina e Medio oriente. Qui c’è di mezzo la sua proiezione verso il Mediterraneo: il possesso della Crimea e la base di Tartus in Siria.

Allora che cosa sta succedendo al tavolo dei veti incrociati?

Come nel 1950 con la guerra di Corea così oggi intorno alla minaccia nucleare di Pyongyang si sta costruendo il puzzle di una nuova “guerra fresca”. Solo che allora l’avversario principale degli Usa era Mosca e la sua penetrazione in Europa e quello secondario la Cina. Oggi è il contrario. La Cina è il principale avversario, ma la Russia potrebbe cambiare cavallo se lo scambio è conveniente. Così fece Mao nel 1971 schierandosi con gli Usa contro Mosca. Naturalmente le similitudini con il passato non devono ingannare, parliamo delle caselle iniziali di una scacchiera con movimenti che potrebbero essere molto diversi.



Desta preoccupazione la presenza di sottomarini russi in Atlantico, come il fatto che una fregata russa sia stata individuata nel Mare del Nord dalla Royal Navy. Perché queste mosse?

La Russia vuole far sapere di esserci, di essere ancora nei suoi vecchi ambiti strategici, nonostante l’arretramento strategico dopo la fine della Guerra fredda. Questo serve anche a spaventare i vicini, ex sudditi, come i paesi baltici con forti minoranze russe, o Polonia e Ucraina. Il nervosismo di questi paesi poi infastidisce l’Europa occidentale, che oggi vede la Russia come un’opportunità e non una minaccia e ciò spacca ancor di più il fronte europeo.  

A metà dicembre Trump aveva sollecitato Putin e la Russia a “fare di più” sul tavolo nordcoreano. E’ quello che stiamo vedendo?

Sì, Putin sta rispondendo, ma a modo suo. Per questo credo che occorrerebbe una strategia coordinata verso Mosca, non isolata a spizzichi e bocconi: bisognerebbe aiutare l’integrazione di Mosca nel mondo globalizzato, trattare con Mosca per la Nord Corea ma anche prendere a cuore le giuste preoccupazioni degli ex sudditi sovietici. Se noi siamo terrorizzati dai profughi libici, che sono al massimo un problema di ordine pubblico, Mosca che ha attaccato Georgia e Ucraina in meno di un decennio è una questione più vera. 

Per questo occorre, lei dice, integrare Mosca.

Sì, evitando di tenerla al balcone come un parente povero. Su questo c’è bisogno che l’Europa parli alla Russia insieme agli Usa, altrimenti si dà spazio a Mosca di giocare a dividere europei da americani, un vecchio gioco che i russi conoscono bene perché lo hanno fatto per tutta la Guerra fredda.

Per ora la Cina tace. Che cosa intende fare Pechino?

Credo voglia collaborare. Proprio in queste ore la Cina ha annunciato che a novembre ha fermato le sue esportazioni di petrolio in Nord Corea. I giapponesi hanno scritto che i cinesi hanno fornito intelligence agli Usa sulla Nord Corea. Questa potrebbe diventare un’esperienza concreta in cui questi tre grandi collaborano e non si fanno la guerra. Ma anche la Cina ha bisogno di sentire meno fiato sul collo rispetto alla folla di pressioni che arrivano dall’America sul commercio, gli investimenti, sul Mar Cinese meridionale, nei dossier con il Giappone o l’India.

Anche il Medio oriente ha una parte in questo scenario?

Certamente. Qui il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele non ha portato finora a conflagrazioni enormi. L’intifada palestinese per adesso è assai più contenuta rispetto a quella di un tempo. In realtà nessuno nel mondo arabo vuole sbracciarsi troppo, e tutti vogliono collaborare con Israele, un fattore di stabilità e affidabilità nella regione. Russia e sauditi hanno accordi chiari con Israele, ma anche la Turchia non è così ostile e credo ci siano progressi anche con l’Iran. 

In questo contesto come si inserisce la Cina?

Tutto avviene perché la Cina sta lavorando alacremente alla sua nuova Via della seta che deve passare per di là. Anche quelli sospettosi o contrari all’iniziativa cinese, come americani o indiani per esempio, sanno che la prospettiva di pace nella regione è farne una zona di scambi. In questo Israele è un’ancora di stabilità, mentre i palestinesi non hanno fatto grandi proposte costruttive e continuano a non voler riconoscere lo stato di Israele. Anche qui ci sarebbe bisogno di un approccio complessivo. La Via della seta cinese è il ritorno a una storia antica che si sta già facendo e si farà. 

Nelle analisi tutto torna, sul campo però le cose normalmente si complicano. E si commettono tanti errori.

Certamente. Occorre dividere le grandi tendenze storiche, il riavvio della Via della seta o il bisogno della Russia di mantenere la sua estensione panasiatica o il suo interesse nel grande Mediterraneo — che include il Mar Nero — dagli errori che Russia e Cina possono fare in questo o quel quadrante. L’altro problema grande è che gli Usa, la superpotenza globale e la potenza di riferimento dell’Italia, è reduce da 15 anni di errori che vanno dalle guerre in Iraq e Afghanistan alle rivoluzioni al gelsomino. Nessuno si muove in questo spazio “senza peccati”. Forse proprio per questo tutti dovrebbero essere più umili. Ma tanti, da molte parti non hanno pazienza e calcolano, forse male, i loro punti di forza non vedendo le proprie debolezze.

(Federico Ferraù)