Donald Trump dà costantemente l’impressione di muoversi come un elefante in un negozio di cristalli e anche nei rapporti tra pubblico e privato si comporta in modo meno coperto rispetto ai suoi predecessori, per esempio i Clinton con la loro fondazione. Interessante un articolo apparso lo scorso novembre sul sito di al Jazeera a firma Malak Chabkoun dal titolo “Trump’s foreign policy: Follow the money” (La politica estera di Trump: Segui il denaro). L’autrice analizza gli interventi di Trump in Medio oriente per concludere che per lui gli unici musulmani “cattivi” sono quelli che non hanno niente da offrire, agli Stati Uniti e alle sue società. Un criterio di scelta che si estende, secondo gli esempi portati nell’articolo, anche a Israele, Russia, Cina e altrove.



L’analisi della Chabkoun non è priva di fondamento, come sono oggettive le frequenti critiche sui repentini cambi di posizione e le contraddizioni, spesso non irrilevanti, di Trump. Tuttavia, le intemperanze nella comunicazione e le palesi contraddizioni non significano l’assenza di una strategia di Trump, anche se ne possono inficiare l’attuazione. Quel suo “America first” è più di uno slogan, è un’impostazione ampiamente diversa da quella che ha guidato i suoi predecessori. Forse confusamente, è una presa d’atto della fine del “Secolo Americano” e della pretesa di porsi come portatori e guardiani della democrazia, all’americana, nel mondo. Non più, quindi, regime change e nation building, ma una divisione del mondo in amici e nemici o, se si preferisce, in soci in affari e concorrenti. Al fondo, cambiano gli strumenti, ma rimane l’obiettivo di una predominio globale degli Stati Uniti per la salvaguardia dei propri interessi.



Trump sembra aver accettato il fallimento dell’utopia che avrebbe voluto gli Stati Uniti unica potenza mondiale dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica. Conseguente quindi l’accettazione di un mondo multipolare e dell’esistenza di concorrenti sul piano globale, come la Cina e la “rediviva” Russia. Con costoro si devono contendere, o in alcuni casi condividere, i “mercati”, attuando una logica di “cartello” di fronte a nuovi avversari non assimilabili come l’estremismo islamico.

Come per Obama, anche per Trump il problema principale è dato dall’espansionismo della Cina, che non riconosce alcun limite territoriale. Approfittando di una certa disattenzione dell’amministrazione Obama, troppo distratta dalle polemiche con Putin, Pechino ha enormemente aumentato il commercio e gli investimenti in America Latina, per esempio nel disastrato Venezuela. Significativo un recente articolo apparso sul South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong vicino a Pechino, sui consistenti investimenti cinesi in Guyana, Barbados, Bahamas, Giamaica e a Panama. L’articolo descrive in particolare il piano di sviluppo trentennale concordato con il governo di Grenada, un’isola con solo 100mila abitanti ma con alto valore simbolico. Nel 1983, sotto Reagan, Grenada venne attaccata militarmente dagli Usa per sottrarla all’influenza cubana e sovietica e, secondo l’articolo, il risentimento antiamericano è ancora forte nella popolazione locale.



A giudicare dal suo atteggiamento verso il Messico, Trump non sembra particolarmente propenso a rapporti più distesi verso il Sudamerica, rendendo così più facile la penetrazione cinese nella regione. L’attenzione della Casa Bianca pare essere concentrata sul Pacifico, dove il confronto con Pechino, pur con esiti molto incerti, denota un certo pragmatismo da parte di Trump. Nella questione nordcoreana si sta forse delineando una soluzione che potrebbe portare a una “neutralizzazione” della penisola, in una sorta di condominio cino-americano che permetterebbe a tutti i protagonisti di dichiararsi “vincitori”. Una guerra nucleare potrebbe essere scatenata solo da un Kim Jong-un in preda a sindrome da “muoia Sansone con tutti i filistei”, ma non converrebbe a nessuno neppure un conflitto locale, riedizione della Guerra di Corea dell’inizio degli anni 50.

Coerente con la visione descritta è anche la sequenza di denunce di trattati internazionali: prima il ritiro dal Ttp, il Trattato commerciale transpacifico, poi il disconoscimento degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, seguito dalla recente uscita dall’Unesco, insieme a Israele. Sono poi da aggiungere la richiesta di ridiscussione del Nafta, l’accordo commerciale con Canada e Messico, le critiche sull’utilità della Nato e sul suo sistema di finanziamento, l’attacco alla Wto, la World Trade Organization, accusata di ledere gli interessi americani. Ora, dopo la condanna della decisione americana di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, nel mirino di Trump potrebbe finire la stessa Onu. Prima del voto, Trump e l’ambasciatrice all’Onu avevano apertamente minacciato di boicottare finanziariamente chi avesse votato contro la decisione americana. Di certo la Casa Bianca non pensava di poter cambiare l’esito della votazione, ma così ha mandato un chiaro messaggio circa la propria politica estera, anche agli alleati tradizionali. Non è neppure da escludere una ridiscussione dell’attuale assetto dell’Onu, la cui incapacità di gestire le crisi è sempre più evidente e di cui gli Stati Uniti sono i principali sovvenzionatori.

In questo scenario, l’Unione Europea figura come il classico vaso di coccio, incapace di trovare una ragionevole soluzione alle sempre più gravi crisi interne e sempre meno incidente sul piano internazionale, dove ogni Stato membro agisce per conto proprio e secondo interessi spesso contrastanti. Né Trump sembra intenzionato ad occuparsi più che tanto dell’Europa, che ritiene probabilmente un ginepraio altrettanto complicato, anche se forse meno pericoloso, di quello mediorientale, in cui si trova già drammaticamente impantanato.