Anche papa Francesco è intervenuto, con risolutezza, di fronte alla sfida lanciata dal presidente americano Donald Trump su Gerusalemme. “Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani ed ha una vocazione speciale alla pace. Rispettate lo status quo” ha detto il pontefice. Secondo Filippo Landi, a lungo inviato della Rai in Israele, Bergoglio ha sottolineato un aspetto che è fondamentale, il rispetto delle tre comunità religiose, quella ebraica, cristiana e musulmana, che invece nell’infuocato dibattito che è scoppiato dopo le parole di Trump è passato in secondo piano. Con Landi abbiamo cercato di capire tutte le implicazioni e i retroscena di quello che sta accadendo e che per molti, anche gli apparati militari americani, rischia di far scoppiare una miccia incontrollabile. 



Cosa significa da parte del papa dire di rispettare lo status quo? 

Per le comunità religiose che vivono a Gerusalemme rispettare lo status quo significa attenersi a quell’accordo formalizzato ormai decenni fa che consente alle diverse comunità di avere autonomia e di esprimersi all’interno della città. Per i cristiani si tratta del Santo Sepolcro, per gli ebrei dell’area del Muro del pianto e per i musulmani del controllo amministrativo e religioso della Spianata delle moschee. L’appello del papa è un invito a rispettare la dignità e l’autonomia delle comunità religiose.



Un aspetto dunque, quello religioso, imprenscindibile se si vuole discutere del ruolo di Gerusalemme?

Siamo di fronte a un assetto che trascende il controllo che si è formalizzato negli ultimi decenni da parte degli israeliani sulla città, e che proprio gli israeliani hanno incrinato quando negli ultimi anni hanno imposto che il giorno del venerdì, giorno di preghiera per i musulmani, per ragioni di sicurezza, dicono loro, ci sia il divieto di accesso alla spianata per gli uomini con meno di 50 anni. La sfida di Trump sta incontrando soprattutto da parte delle comunità religiose, anche se quella ebraica tace, una risposta molto dura perché va al di là dell’aspetto politico che sarebbe legato al trasferimento dell’ambasciata.



L’accusa principale rivolta a Trump è che si starebbe muovendo in modo unilaterale invece del necessario dialogo fra le parti.

Questa è la critica che si è sentita di più, però c’è anche da dire un paio di cose. La prima è che l’iniziativa di Trump è effettivamente un elemento che si pone prima della trattativa fra le due parti e definisce per gli Usa una decisione che pregiudica il suo futuro.

In che senso?

Nel senso che i palestinesi chiedono che Gerusalemme sia anche la loro capitale e l’iniziativa di Trump in qualche modo annuncia la fine della sospensione del trasferimento dell’ambasciata così come era stato fino a oggi. Fa ipotizzare quello che almeno una parte della politica israeliana vuole a tutti i costi, che Gerusalemme sia solo la capitale di Israele.

Il secondo elemento?

Il secondo elemento in qualche modo è un fatto paradossalmente positivo. Trump con questa iniziativa fa capire che le trattative di pace sono ferme da anni e quindi il suo atto rompe una situazione di stallo. 

C’è chi ipotizza che dietro a tutto questo ci siano i forti legami fra la destra israeliana e il genero di Trump, Kushner. Il presidente americano sta forse facendo un favore a chi lo ha finanziato?

E’ una ipotesi assai veritiera. Inoltre si può ipotizzare con fondamento che con la sua iniziativa, Trump voglia in qualche modo spostare l’attenzione fuori dagli Usa, fuori dal Russiagate. Trump in questo modo chiederebbe alla comunità ebraica americana di compattarsi intorno al genero e alla destra israeliana, ponendo in qualche modo la sua figura al centro di una vicenda che va oltre la situazione mediorientale e riguarda la politica interna americana. Non è fantapolitica. Per la connessione temporale che c’è tra l’annuncio di Trump e il punto in cui sono arrivate le indagini dell’Fbi è molto più che una coincidenza.

La gran parte dell’apparato militare e segreto americano si è dimostrato contrariato dalla decisione del presidente. C’è davvero il rischio che la situazione sfugga di mano?

Nelle vicende medio orientali capita che coloro che poi devono gestire le crisi, una lunga schiera di personaggi appartenenti all’esercito e ai servizi segreti, siano proprio quelli che danno l’allarme sui comportamenti dei politici. Non è un caso che l’attacco ipotizzato da Israele contro l’Iran abbia trovato a suo tempo forti resistenze negli ambienti militari. Adesso si ripropone negli Usa. 

Queste componenti che devono affrontare l’ordine pubblico come stanno reagendo?

Si ipotizzano una serie di scenari critici e iniziative di carattere militare. Il sistema dell’esercito israeliano è al massimo livello di allerta e si ipotizza un certo numero di vittime nel prossimo futuro.

Concretamente?

Il primo passo a breve periodo sarà una serie di scontri che le forze israeliane ma anche di paesi arabi pensano in qualche modo di contenere. A medio e lungo periodo, nonostante la repressione, sicuramente le tensioni troveranno nuovo alimento e questo va considerato in una prospettiva più ampia.

Quale?

Il fenomeno del terrorismo su scala internazionale da questa vicenda di Gerusalemme non può che trovare nuovo alimento se non ci sarà un accordo che sarebbe semplice. Non è in discussione che Gerusalemme sia la capitale di Israele ma si deve chiarire bene anche da parte israeliana se può essere capitale anche del futuro stato di Palestina, comunque capitale della parte araba che chiede uguali diritti della parte ovest ed ebrea.

(Paolo Vites)