Fra gli osservatori dell’incontro top secret di ieri fra il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente della Bce, Mario Draghi, non è mancato chi ha ricordato che l’ultimo asse fra un grande banchiere centrale e un’importante leadership occidentale sotto elezioni ha mancato clamorosamente l’obiettivo. La Fed di Janet Yellen, democrat nominata dal presidente democrat Barack Obama, ha fatto di tutto per agevolare una staffetta democrat con Hillary Clinton alla Casa Bianca.



Con abili slalom retorici – di conferenza stampa in conferenza stampa, da un’audizione parlamentare a un discorso accademico – la banchiera centrale del dollaro ha sempre ritardato il rialzo dei tassi Usa, prolungando di fatto gli anni del quantitative easing fino alle presidenziali dello scorso novembre. Ha mantenuto gas al ciclo economico (i dati sui sussidi disoccupazione Usa del gennaio 2017 sono ai minimi) e ha tenuto piena di liquidità la piscina di Wall Street (che era sui massimi già alla vigilia dell’election-day). Ma alla Clinton non è bastato.



Il 20 gennaio, sulla scalinata del Campidoglio, il presidente eletto Donald Trump ha giurato scagliandosi contro “l’establishment di Washington”, di cui certamente la Fed è architrave. L’elettore populista che ha spinto The Donald alla Casa Bianca non ha (più) fatto differenza fra la guardiana del dollaro e i banchieri che nel 2008 hanno provocato il collasso dei mercati e tutto quanto è accaduto dopo. Il paradosso odierno vuol che, una volta insediatosi, il nuovo presidente sia meno ansioso di una stretta monetaria: mentre Yellen sta facendo leva – più o meno politicamente – sull’impossibilità di rinviare ulteriormente i rialzi (ma i primi segnali concreti stanno connotando una Fed molto tecnica e relativamente poco aggressiva col nuovo presidente).



E’ un fatto, comunque, che difficilmente potrà avere seguito l’entente cordiale fra le due banche affacciate sull’Atlantico. Gioco di squadra molto indiscusso (la staffetta del QE fra dollaro ed euro non è mai stata compiutamente motivata e nell’eurozona ha dato finora esiti insoddisfacenti). Ma l’intesa è stata reale quanto meno nella “narrazione” dei protagonisti: esattamente come è stata a lungo “reale in quanto narrata” la contrapposizione fra la Bundesbank e Draghi, fra l’ala dura della Cdu merkeliana al governo e i paesi dell’Europa mediterranea; con il cancelliere in eterna funzione di mediazione, faticosa e compromissoria.

Dall’avvento di Trump gli schemi si sono frantumati. La Merkel – che ha ricevuto Obama in uscita, sembrando raccoglierne idealmente un’eredita’ politica globale – è stata attaccata dal nuovo presidente Usa su un tema sostanziale e delicato: l’enorme surplus commerciale accumulato dalla Germania grazie al QE dell’euro, ufficialmente osteggiato da banchieri e politici tedeschi. Argomento – il brillante ciclo tedesco trainato dall’export – che il cancelliere immaginava essere un proprio asso nella manica in vista delle elezioni di settembre: salvo scoprire che il candidato Spd Martin Schultz è oggi avanti nei sondaggi grazie a posizioni para-populiste, battagliere contro l’Europa dei banchieri e dei parametri fiscali. 

L’elettorato tedesco sembra quindi più tiepido del previsto verso un cancelliere “di grande coalizione” in cerca del quarto mandato: verso una Merkel stretta fra Trump e l’amico Vladimr Putin (leader di una Russia “sanzionata” alla frontiera orientale).

Di qui un singolare “gioco di squadra” in maturazione fra Draghi e la cancelliera tedesca che nel 2011 decise l’ascesa del banchiere italiano a Francoforte, frustrando le attese del presidente della Bundesbank, Axel Weber. Il capo della Bce è da due anni sotto il cannoneggiamento della Buba, tacitamente appoggiata dal ministro-falco Wolfgang Schauble: la sua posizione è a rischio logoramento, soprattutto ora che fra New York e Washington i venti hanno cambiato direzione e non spirano più a favore dell’Europa. Ma non è questo il momento che la Merkel può concedere ai suoi rigoristi interni.

Ecco quindi Jens Weidman – presidente Buba – dichiarare improvvisamente che sarebbe un errore contrastare Draghi e interrompere rapidamente l’espansionismo monetari. nell’eurozona. Ecco la stessa Merkel, è cronaca delle ultime ore, smentire di volere “un’eurozona a due velocità”, pochi giorni dopo aver ventilato per la prima volta “un’Europa a due velocità”. Ecco, sempre ieri, il premier italiano Paolo Gentiloni, in visita a Londra dalla premier di Brexit, Theresa May, ribadire il favore dell’Italia per una discussione del tema “due velocità” già al vertice di Roma del prossimo marzo, in occasione del sessatennio dei primi trattati europei. Dunque: a conclusione del faccia a faccia con Draghi, Merkel esclude che un paese come l’Italia possa essere esclusa dall’euro “irreversibile” (Draghi all’europarlamento). E Gentiloni a Londra non spende una parola per tenere aperti i canali con la Gran Bretagna (che per Germania e Francia è irrevocabilmente fuori dalla Ue) mentre ribadisce che la priorità politica dell’Europa “dei trattati” è combattere il populismo (probabilmente attraverso un biennio “ri-costituente” per la Ue, che Merkel ha già virtualmente collocato dopo la sua riconferma in Germania.

Chissà se stavolta l’intesa – inedita e un po’ spericolata – fra il banchiere centrale europeo (con primo passaporto italiano e secondo americano) e la cancelliera tedesca nata nell’Est farà centro nelle urne: alle presidenziali francesi in maggio e alle politiche tedesche in settembre. E anche alle politiche italiane del febbraio 2018.