La recente ordinanza di Donald Trump, l’executive order “Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into the United States“ (Proteggere la nazione dall’ingresso negli Stati Uniti di terroristi stranieri), ha suscitato reazioni molto vivaci e sta dando origine a un pericoloso scontro tra magistratura e presidenza. Su questo scontro ha preso le distanze anche Neil Gorsuch, designato da Trump alla Corte Suprema al posto del defunto Antonin Scalia. Le polemiche si sono concentrate sulla discriminazione verso i musulmani, dato che il bando temporaneo sull’immigrazione riguarda sette Stati a maggioranza musulmana. Le critiche al decreto presidenziale sono state accompagnate dalle ormai consuete accuse di populismo e razzismo, facilitate, altrettanto ovviamente, dagli atteggiamenti e dalle parole del presidente. I sondaggi effettuati dimostrano come ancora una volta Trump sia riuscito a spaccare a metà il Paese, suscitando reazioni quanto meno perplesse anche tra suoi sostenitori, più per la fretta e la superficialità con cui è stata emanata un’ordinanza di tale rilievo che non sui suoi contenuti.
La lettura del decreto porta infatti a qualche considerazione meno banale di quelle che hanno inflazionato molti commenti, concentrati sulla “questione islamica”. In realtà il decreto prevede una totale revisione, in senso restrittivo, di tutta la regolamentazione sull’entrata di stranieri nel Paese. Si parla così di immigranti e di non immigranti, cioè in generale di stranieri per i quali, prima che venga loro concesso il visto di ingresso, deve essere accertato che non costituiscano un pericolo per gli Stati Uniti. La protezione dei cittadini oggetto del decreto va oltre il pericolo di atti di terrorismo e si estende al rifiuto della Costituzione e dei valori fondanti gli Stati Uniti, all’introduzione nel Paese di ideologie violente, al fanatismo e all’incitamento all’odio, per esempio verso chi pratica un’altra religione, a posizioni vessatorie verso cittadini americani di “ogni razza, genere o orientamento sessuale”.
Il dibattuto blocco di 90 giorni dei visti a cittadini di Paesi a rischio terrorismo è giustificato nel testo con la necessità di concedere agli uffici coinvolti il tempo necessario per una adeguata revisione delle attuali norme. Nel decreto non si citano Paesi specifici, rimandando a precedenti disposizioni restrittive che riguardano i sette Stati messi al bando: Siria, Iraq, Iran, Sudan, identificati come possibili fonti di atti terroristici da una legge approvata dal Congresso nel 2015, cui si aggiungono Libia, Somalia e Yemen inclusi nella lista da Obama nel 2016. Ciò consente a Trump di respingere l’accusa di discriminazione contro i musulmani, visto che le restrizioni già esistevano e accuse di questo tipo non sono state rivolte al suo predecessore. Tuttavia, come rileva il Washington Post, Trump ne ha alzato il livello ponendo il bando all’ingresso a tutti i cittadini di questi Stati e non solo, come in precedenza, a chi di loro aveva visitato Iraq e Siria, considerati luoghi di reclutamento di terroristi.
Anche se viene data la possibilità alle autorità competenti di concedere visti caso per caso, è certo che si tratta di un decreto molto rigido, che introduce norme “protezionistiche” anche contro le persone, sia pur con la giustificazione della sicurezza nazionale. Questa critica va diretta all’impianto in sé del decreto e risulta un po’ artefatta la polemica sulla discriminazione antimusulmana, che trova peraltro una certa corrispondenza in affermazioni dello stesso presidente. Se i Paesi al bando sono tutti a maggioranza musulmana è perché la più estesa minaccia di terrorismo a livello globale proviene dal mondo musulmano e islamico è il fondamentalismo religioso che ne è alla base.
Una sezione del decreto è riservata ai rifugiati, per i quali si prevede un periodo di sospensione più lungo, 120 giorni, sia pure con la possibilità di eccezioni caso per caso. Inoltre, il numero massimo di rifugiati accoglibili, con le nuove e più rigide norme, viene limitato per il 2017 a 50mila, perché un maggior numero di rifugiati sarebbe “dannoso per gli interessi degli Stati Uniti”. Le critiche avrebbero dovuto concentrarsi su questo passaggio, che appare dolorosamente ridicolo. Solo in questa sezione viene citato uno su sette Paesi al bando, per escludere l’accettazione di rifugiati dalla Siria fino a nuovo ordine dello stesso presidente. La situazione siriana è senz’altro tale da giustificare misure restrittive, ma sarebbe stata desiderabile una maggiore attenzione ai singoli casi, date anche le responsabilità che gli Stati Uniti hanno nella tragedia siriana.
Critiche sono state fatte anche alla possibilità di maggiore apertura nella concessione di visti per i rifugiati cristiani, indicata come ulteriore prova della discriminazione antimusulmana. In realtà nel decreto si parla di persone che fanno parte di “una minoranza religiosa perseguitata nel suo Paese”, una condizione che potrebbe applicarsi, per esempio, ai Rohingya, minoranza musulmana perseguitata nella buddista Birmania. Forse, in questo caso, non verrebbero sollevate critiche. La misura non è stata ben accettata neppure dalle autorità religiose cristiane del Medio Oriente, per il timore che ciò potesse aggravare la situazione dei cristiani di quella regione. Sarebbe stata opportuna una maggiore cautela nelle dichiarazioni del governo statunitense, ma anche queste reazioni sono una testimonianza dell’ampiezza e profondità della persecuzione nel mondo musulmano dei cristiani e di altre minoranze religiose.
Come detto, questo executive order ha spaccato nuovamente il Paese e c’è da chiedersi se questa strategia di Trump, vincente in campagna elettorale, non possa essere pericolosa ora che è presidente, e non solo per gli Stati Uniti.