Ciò che colpisce nelle ultime presidenze degli Stati Uniti, ma in modo ancora più determinato in quella attuale, è il crescente ricorso alla dimensione mediatica dei gesti e dei contenuti del discorso ufficiale. Le immagini del presidente Trump al telefono, che controlla, determina e soprattutto firma, contengono l’essenziale del suo discorso politico: il primato dell’agire, concreto e visibile, rispetto alla pura dimensione tradizionale del presidente che parla al Congresso, agli organi di stampa, o riceve gli altri capi di Stato. 



Donald Trump, è chiaro, parla a quell’America profonda che lo ha votato e che vuole sentire, e soprattutto vedere, un mutamento di rotta, che vale anche quando è inefficace, magari retorico e spesso destinato a restare più apparente che reale. “Non ci interessa — sembra di sentir dire — l’efficacia reale degli atti, purché il nostro presidente agisca, rispettando le promesse”. Confesso allora di essere turbato non tanto da quello che il nuovo presidente degli Stati Uniti dice (ampiamente annunciato in campagna elettorale) quanto dalla sua necessità di compiere anche degli atti concreti nei quali la dimensione mediatica prevale ancora sull’efficacia. 



In tal senso poco importa che il divieto di accesso negli Stati Uniti a passeggeri islamici provenienti da aree non affidabili si imbatta nel non senso e soprattutto nell’inefficacia. Poco importa che le nuove centrali del terrore, ahimè, possano serenamente avvalersi di pochi sociopatici già da tempo residenti negli Stati Uniti per lanciare le proprie follie assassine. C’è un popolo da riassicurare; un popolo che, verosimilmente, non coincide affatto con le diverse élites americane che hanno occupato il proscenio negli ultimi quarant’anni. Questo popolo ha sentito sempre di più venir meno le proprie sicurezze sotto i colpi di una crisi economica che ha coinciso con una crisi di sovranità e si è accompagnata alla persistente e oramai epocale crisi dei valori tradizionali. Ed è per loro, per quest’elettorato che il presidente firma e fa vedere che ha firmato, impone nuove regole, lancia tweet, chiama a rapporto i giganti dell’industria automobilistica, fa capire ai propri partner delle altre nazioni che non sarà tenero con nessuno: tutti messaggi che sono musica per chi lo ha votato.



Non posso quindi che confessare il mio sconcerto personale per un atteggiamento di protesta anti-Trump che considero estremamente problematico e che sembra cadere nello stesso primato della rappresentazione mediatica. Tanto le manifestazioni anti-trumpiane, quanto la loro valorizzazione sui media, mi appaiono infatti decisamente deludenti. Non certo perché non ne condivida i contenuti. Nulla di più adeguato che battersi per la non esclusione, il dialogo, i ponti, il rispetto. Nulla di più vicino ai miei personali convincimenti del primato della relazione con l’altro come vera (e unica) soluzione di ogni conflitto, di ogni tensione.  

Nulla per me di altrettanto evidente e scontato di quel passaggio obbligato costituito dall’importanza della conoscenza dell’altro come bene e come occasione di crescita e, al contrario, il vedere come estremamente problematico ogni rinchiudersi nel proprio recinto. Ciò che mi preoccupa invece nella protesta anti-trumpiana è l’occasione che questa perde quando rinuncia ad un’analisi che dovrebbe risultare preliminare e comunque imprescindibile, per preferire a questa la facile visibilità dell’indignazione pubblica.

Poiché la qualità di ogni elezione democratica è quella di fotografare le opinioni così come sono e non come noi vorremmo che fossero, si è sempre assistito nel passato a tentativi di trarre da ogni sconfitta elettorale elementi di analisi per capire perché una specifica area politica fosse stata sconfitta. Dietro ogni sconfitta elettorale sono sempre fiorite le analisi critiche, che poi hanno ovunque prodotto importanti ricerche sulle trasformazioni della specifica società attraversata dal mutamento politico. La verità elettorale, in altri termini, ha sempre segnato l’avvio di una riflessione seria, rivelandosi così un’occasione per crescere. 

Ora proprio nel caso del presidente Trump c’è materiale all’infinito. Dinanzi ad un candidato che vince contro non solo il proprio avversario, ma anche contro il suo stesso partito, contro i media, le università, persino le icone del cinema e del rock non è possibile non impegnarsi a revisionare tutta una serie di certezze a lungo coltivate sul mito dei “poteri forti”, le centrali del consenso, il sistema che controllerebbe opinioni e valori, visto che è stato proprio questo sistema a scoprirsi in minoranza. Ci sarebbe da aprire una riflessione infinita (ma quanto mai fruttuosa!) su una tale verità dei fatti che ci obbliga a rimettere ordine nella nostra biblioteca e rileggere con maggiore attenzione i classici (primo fra tutti Vilfredo Pareto e la sua teoria sulla circolazione delle élites). 

In questo senso la vittoria di Trump nelle elezioni americane, proprio per avere sconfitto tutti i pronostici della vigilia, avrebbe dovuto alimentare una seria analisi sulla società americana, sulle fratture che vi si sono aperte, sulla crisi di una leadership liberal e democratica che ha pur avuto in mano tutte, ma veramente tutte, le leve del potere mediatico-culturale. Ci si sarebbe quindi attesi un’analisi attenta della sinistra liberal proprio su sé stessa, sulla sua crescente incapacità nel convincere e nel rendersi credibile presso quelle stesse aree che fino a ieri vi si sono profondamente riconosciute. 

Tuttavia, per quanto simili analisi siano state svolte o siano comunque in corso, non c’è dubbio che il proscenio sia invece ancora occupato dalla protesta anti-Trump e sia questa a precedere ogni riflessione critica sulle incapacità, le fratture e gli errori di una leadership culturale per decenni indiscussa.  

La tentazione della protesta è stata così superiore ad ogni volontà di analisi da arrivare addirittura a contestare il risultato delle elezioni il giorno dopo anziché analizzarlo: un vero e proprio autogol per ogni democrazia, come se le tornate elettorali fossero valide solo quando vince il fronte liberal e non quando vincono quelle che un tempo venivano chiamate “le forze della reazione”. 

Il sottodimensionamento di queste analisi a vantaggio dell’ennesima rappresentazione della pubblica indignazione, il preferire il registro della protesta a quello dell’analisi critica costituisce un’occasione persa per capire, un appuntamento mancato per accertare la verità di una crisi che non è affatto una crisi solamente americana, ma sta trasformando dal profondo le nostre società.