Elogio di Donald Trump. Si può essere in disaccordo oppure appoggiare le scelte strategiche del nuovo presidente degli Stati Uniti, ma una cosa tutti gli devono riconoscere: la capacità di rompere con i comportamenti segnati dall’ipocrisia. È esattamente quello che si è consumato alla Casa Bianca, nell’incontro tra Trump e  il premier israeliano Netanyahu.



È giusto partire dalle parole del presidente Trump: “Per me va bene sia la soluzione con due Stati o quella con uno Stato. L’importante è che le parti siano d’accordo”. Parole che sono state accolte con sorpresa e scalpore da molti commentatori. “Lo strappo di Trump” oppure Trump “congela l’ipotesi dei due Stati”. Questi sono due titoli, tra i tanti che hanno inseguito e commentato il “cambio di linea” della presidenza Trump rispetto ad Israele e al conflitto israelo-palestinese. 



In realtà Donald Trump ha tolto il velo sui comportamenti della politica e della diplomazia americana da dieci anni ad oggi. Quel velo strappato, in verità, riguarda anche noi europei e gran parte della comunità internazionale nel suo insieme. Per questo atto politico Trump merita comunque un elogio. Il neopresidente ha fatto cadere l’ipocrisia tra il dire ed il fare, anzi più esattamente tra il non fare rispetto ai comportamenti di un decennio dei governanti israeliani. Una prima avvisaglia per i politici ed i diplomatici di mezzo mondo giunse nell’estate del 2005. Dopo aver annunciato, eseguito e concluso il ritiro dalla Striscia di Gaza di poco meno di ottomila coloni israeliani, l’allora primo ministro ed ex generale Ariel Sharon fece intendere con chiarezza che per i governanti israeliani Gerusalemme sarebbe rimasta unita sotto Israele e l’esercito israeliano non avrebbe lasciato la Cisgiordania. Concetti ribaditi dal suo successore Ehud Olmert. Una pessima premessa per nuovi colloqui di pace, che infatti non decollarono mai più. 



Quando Barack Obama fece un ultimo serio tentativo per favorire un’intesa tra le parti, inviò in Medio Oriente un mediatore di prestigio, l’ex senatore George Mitchell, colui che aveva contribuito a porre fine alla guerriglia e al terrorismo in Irlanda del Nord. Dopo oltre due anni di estenuanti ed inutili viaggi in Israele e nei Territori palestinesi, Mitchell diede le dimissioni dal suo incarico nel maggio 2011 raccogliendo la soddisfazione di Netanyahu. 

Mitchell non fu mai sostituito e le trattative di pace cessarono completamente davanti alla richiesta palestinese (mai accettata da Netanyahu) di fermare la costruzione di nuove colonie israeliane a Gerusalemme est e nel resto della Cisgiordania. Il premier israeliano voleva invece dare una risposta all’espansione demografica delle colonie esistenti e così… furono colate di cemento a Gerusalemme est, alle porte di Betlemme, Nablus, Hebron. 

C’era però un’altra città che occupava ora le preoccupazioni dell’amministrazione americana di Barack Obama: Teheran. L’espansione delle sue capacità nucleari, il rischio di un conflitto mondiale innescato da un attacco israeliano sull’Iran hanno per lungo tempo occupato Obama. Lo scontro tra il presidente americano e Netanyahu si è via via accentuato, ma poi si è realizzato il grande baratto.

Netanyahu ha accettato la via diplomatica, le sanzioni economiche e poi l’accordo tecnico e politico con Teheran, capisaldi della politica di Obama verso l’Iran, ed in cambio il premier israeliano ha avuto, di fatto, il via libera a quell’espansione all’interno di Gerusalemme e dei Territori palestinesi che hanno reso l’ipotesi di uno Stato palestinese un cerino dalla fiamma ogni giorno più labile. 

Sono trascorsi lunghi anni nel silenzio generale, durante i quali il partito di Naftali Bennett, quello dei coloni, ha potuto avvicinarsi all’obiettivo della Grande Israele, dal Mediterraneo al fiume Giordano. Migliaia di nuove case per israeliani sono state costruite in territorio palestinese con il sostegno di un fiume di soldi che veniva dalle fondazioni ebraiche statunitensi. Oggi si possono leggere i nomi dei sostenitori di quelle fondazioni, tra gli altri  Jared Kushner, marito di una delle figlie di Trump, ed anche David Friedman, indicato come nuovo ambasciatore americano in Israele. Il tutto giustificato con il sostegno a coloro che in territorio palestinese sono l’avanguardia della difesa di Israele e dell’Occidente dall’espansione del fondamentalismo islamico. Concetti non dissimili da quelli che Giuliano Ferrara, su Il Foglio, scriveva il 27 dicembre scorso: “La piccola frazione di un villaggio israeliano in Cisgiordania fa di più per la nostra libertà e sicurezza di tutti i predicozzi…” e si riferiva a padre Enzo Bianchi.

Viceversa, quasi negli stessi giorni, a Parigi, parlando ad una conferenza internazionale sul conflitto israelo-palestinese, il presidente francese François Hollande era costretto ad ammettere che l’espansione delle colonie israeliane stava mettendo a repentaglio la soluzione, da decenni invocata, di due Stati, uno palestinese ed uno israeliano. 

Dopo decenni di silenzio, ecco giungere Trump, che porta sul tavolo “anche” la soluzione dello Stato unico. Quella che una delle parti in causa di fatto sta costruendo. “Se le parti sono d’accordo” aggiunge il presidente americano. I politici palestinesi è probabile che rispondano negativamente. Ma anche all’interno di Israele il dibattito è aperto. Ci sono israeliani di destra che puntano alla realizzazione di una Grande Israele, altri che mettono in guardia da uno Stato unico fondato su un regime di apartheid per i palestinesi, altri che chiedono la soluzione dei due Stati per mantenere la specificità ebraica di Israele, altri ancora, come il giornalista liberal Meron Rapoport, che cercano con gli esponenti della società civile palestinese soluzioni concordate per il futuro di Gerusalemme ed anche dei coloni israeliani. Sono questi liberal israeliani a far emergere un problema culturale e politico insoluto per molti altri israeliani: in Israele la soluzione dei due Stati non può sopravvivere se risponde solo ad un interesse israeliano, perché questo può cambiare. Anzi di fatto è già cambiato negli anni. Occorre riconoscere, invece, che anche i palestinesi hanno diritti da riconoscere e rispettare.