Il 16 di febbraio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il secondo round di trattative dirette tra governo siriano e opposizione armata. L’incontro non è cominciato con i migliori auspici: per minare le trattative, la delegazione dei ribelli è arrivata con un giorno di ritardo. Tale atteggiamento ha generato non poca confusione e disappunto tra le parti. Tuttavia, cercando di salvare il salvabile, i funzionari russi hanno insistito per spostare l’apertura dei colloqui a mezzogiorno del giorno successivo. Così l’incontro si è tenuto senza ulteriori interruzioni. 



Nella conferenza stampa finale il rappresentante siriano Bashar Jafari si è però dimostrato molto contrariato per l’atteggiamento dei rappresentanti delle milizie armate. Nello stesso tempo, ha denunciato la mancanza di serietà della Turchia perché ancora “continua a facilitare l’ingresso di decine di migliaia di mercenari stranieri provenienti da tutto il mondo” in Siria. Jafari ha anche detto che Ankara, come garante del cessate il fuoco, non può continuare a svolgere il ruolo di “pompiere” e nello stesso tempo di “piromane”.



Ciononostante, si può dire che la riunione sia stata coronata dal successo, tenendo anche conto che si tratta di una riunione preparatoria a quella successiva che si terrà tra breve a Ginevra. In questo senso, è positivo che comunque si sia riuscito a prolungare ulteriormente il cessate il fuoco ed a sottolineare la necessità di distinguere in maniera sempre più precisa i gruppi che sono disposti ad una soluzione politica da quelli che la rifiutano. Questi ultimi (che continuano ad essere nel libro paga dei sauditi e dei qatarioti), per ottimizzare le risorse disponibili, coordinarsi e penetrare più profondamente sul territorio siriano, hanno dato vita il 28 gennaio ad un nuovo raggruppamento chiamato Tharir al Sham. E’ proprio questa nuova formazione che sta dando filo da torcere all’esercito siriano a Daara, a sud della Siria.



Tuttavia, mentre i combattimenti continuano specialmente contro l’Isis, l’esigenza più urgente per la popolazione siriana non è di ordine politico ma di aiuto immediato e di ricostruzione.

Venendo incontro a questi bisogni, il centro russo per la riconciliazione nazionale continua a mediare con i gruppi ribelli promettendo un ruolo nella ricostruzione del paese: finora sono più di 900 gruppi armati che si sono riconciliati con il governo. 

L’intensa attività diplomatica di Mosca è riuscita ad attenuare l’atteggiamento ostile di Turchia e Giordania nei confronti della Siria: Erdogan, con l’operazione “scudo dell’Eufrate” a nord della Siria, ha reindirizzato le bande armate filo-turche in funzione anti-Isis e anti curda. La diminuzione delle pretese turche ha convinto Re Abdullah di Giordania a ritirare le sue milizie dalla Siria. Il sovrano hascemita sta attuando un più stretto controllo dei confini ostacolando i rifornimenti forniti da sauditi e qatarioti attraverso le frontiere giordane.

Parlavamo della necessità di ricostruzione: la Siria è completamente distrutta, ma visto che è ricca di fonti energetiche queste potranno essere utilizzate come mezzo per finanziare la ricostruzione del paese. Le risorse interessano tutti, tant’è che sono anche la chiave di lettura della dislocazione di Isis in Siria. Non so se ci avete fatto caso, l’Isis si è dislocato solamente in zone ricche di petrolio: i pozzi petroliferi di Al-Tanak, Al-Omar, Al-Tabka, Al-Harati, Al-Shula, Deira, Al-Time e Al-Rashid, sono situati tutti in zone conquistate dal califfato lungo il corso del fiume Eufrate. Il basso costo del greggio e la presenza a Raqqa di raffinerie spiega anche perché lo stato islamico l’abbia scelta come capitale. 

Pure l’insistenza del califfato nel conquistare Deir el Zor e Palmyra non è casuale: la sola regione di Deir el Zor produceva a metà 2015 (prima dell’intervento dei russi) 34-40 milioni di barili di greggio al giorno. La conservazione di risorse vitali gioca un ruolo di primo piano nelle strenua resistenza del governo per non cedere queste aree. 

Il fattore petrolio spiega anche perché l’obiettivo principale dei turchi continui ad essere la città di al Abab (a nord di Aleppo): secondo i dati del Financial Times, al Abab insieme ad Aleppo è stata uno dei principali mercati per la vendita illegale di prodotti petroliferi in Siria con la Turchia.

Allo stesso modo, la presenza di due raffinerie ha indirizzato la scelta dei ribelli di conquistare la città di Idlib: anche in questo caso, le fonti energetiche e la vicinanza al confine turco sono due ottime ragioni. Il desiderio di accaparrasi il petrolio è anche una delle chiavi di lettura del vecchio piano “B” americano (o “Safe zone” di Trump) che prevede la divisione della Siria in zone etniche (sunniti, sciiti ecc.) ma mira soprattutto alla sottrazione delle fonti energetiche al governo centrale. 

In questo contesto, l’Europa non è rimasta a guardare: ci sono segnali che la “vecchia Europa” stia valutando i benefici economici derivanti dalla partecipazione alla ricostruzione della disastrata economia del paese. 

In questo senso, nelle ultime settimane sono avvenute frequenti visite a Damasco di delegazioni parlamentari europee: l’ultima è stata una nutrita delegazione francese (ed è la prima volta dall’inizio del conflitto). Anche le interviste ad Assad da parte dei media occidentali si sono moltiplicate: le ultime sono state quelle di Yahoo News e della francese Europe 1, TF1 e LCI. E’ ingenuo pensare che queste delegazioni abbiano agito senza il placet della leadership europea e dei rispettivi governi: è chiaro che i paesi europei stiano cercando di riposizionarsi per trarne vantaggio. 

Tuttavia, per ora non si dovranno fare grandi illusioni: nel corso di un incontro con parlamentari belgi, Assad ha detto chiaramente che dall’inizio della guerra, la maggior parte dei paesi europei hanno adottato una politica non realistica verso la Siria e ha aggiunto che questa politica “ha isolato ed eliminato qualsiasi ruolo che l’Europa ora potrebbe svolgere a causa del proprio sostegno alle organizzazioni che hanno praticato ogni forma di terrorismo contro il popolo siriano”.

Ed ancor più esplicito è stato il ministro dell’Economia siriano Adib Mayala, che su Ria Novosti ha detto: “alcuni paesi stanno cercando di penetrare con imprese e fondi non governativi di loro proprietà, che vengono creati nei paesi vicini della Siria come il Libano, così come nei paesi che sono rimasti neutrali durante la crisi”. Il ministro ha precisato che contro tale prospettiva, il governo siriano ha promesso “uno stretto monitoraggio di coloro che vogliono partecipare al restauro dell’economia siriana, vanificando i tentativi di intervento di coloro che di recente hanno partecipato alla distruzione dello Stato”.

In sostanza, chi beneficerà dei vantaggi derivanti della ristrutturazione dell’economia siriana saranno i più stretti alleati di Damasco: Mosca, Pechino e Teheran. 

La cooperazione con questi tre paesi, inserita in un piano per rilanciare l’economia, si svolgerà in molti settori come l’industria petrolifera, l’agricoltura, le comunicazioni. 

Invece, per quei paesi che hanno sostenuto l’attività delle bande armate in Siria (ed ora si dicono interessati al recupero dell’economia siriana) il ministro Mayala pone come condizione preliminare che “riconoscano il proprio errore e si scusino con il popolo siriano”: sarebbe la cosa da fare più semplice e giusta ma scusarsi ed imparare dai propri errori sembra non essere nello stile dei paesi europei.