Nel commentare sul sussidiario le ultime dichiarazioni di Donald Trump sulla questione palestinese, Filippo Landi sottolinea correttamente la differenza con la posizione, piuttosto ambigua, della precedente Amministrazione Obama. “Per me va bene sia la soluzione con due Stati sia quella con uno Stato. L’importante è che le parti siano d’accordo”: questa frase di Trump è indice di un affronto della questione meno ipocrita rispetto al passato ed è in linea con gli atteggiamenti tipici di Trump. Inoltre, può essere anche utile per cercare di individuare i punti essenziali della sua politica estera, che sembrano portare a una divisione del mondo in due aree: un’area nella quale gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo fondamentale e un’altra in cui gli Usa saranno disposti ad accettare le soluzioni raggiunte dagli attori locali, purché non dannose per gli interessi americani.
Apparentemente, il Medio Oriente rientra nella seconda area di interesse e la frase sulla questione palestinese potrebbe essere estesa anche alla Siria e all’Iraq. E’ probabile che per Trump il coinvolgimento diretto in questa regione sia costato troppo agli Stati Uniti e che tocchi ora agli “alleati” il compito si assicurare la stabilità dell’area. Un atteggiamento simile a quello tenuto nei confronti della Nato e dell’Europa, atteggiamento che ha portato molti osservatori a parlare di disimpegno da entrambe le aree. Le tendenze centrifughe all’interno della Ue, che non si limitano al Regno Unito, portano acqua al mulino degli accordi bilaterali sostenuti da Trump, contro i grandi trattati multilaterali, come TTP e TTIP, cari a Obama.
Intervengono qui i rapporti con la Russia di Putin, con la sostanziale “assoluzione” dell’annessione della Crimea che ha suscitato tante reazioni negative. Per la verità, Trump potrebbe dire che se il principio di autodeterminazione vale per i palestinesi, non si capisce perché non dovrebbe valere anche per i russi di Crimea o del Donbass.
I rapporti con la Russia sono più complicati in Medio Oriente per la posizione fortemente contraria di Trump verso l’Iran, principale alleato della Russia nella regione e pericoloso nemico di Israele. Sembrerebbe inevitabile uno scontro con Putin, come ai tempi di Obama e della Clinton, ma non è detto che la situazione porti a questo, sia per il pragmatismo — qualcuno potrebbe dire cinismo — di Putin e Trump, sia per l’estrema fluidità dei rapporti tra i protagonisti locali e la continua variabilità delle alleanze.
Nell’area di intervento diretto degli Usa è pensabile vadano iscritte America Latina e Asia. Per la prima, alla scottante problematica riguardante il Messico e che non è limitata al solo problema dell’immigrazione, si è aggiunto negli scorsi giorni lo scontro con il Venezuela sui diritti umani e Trump ha reso effettive le sanzioni contro Caracas decise, ma non attuate, da Obama. Questa mossa di Trump viene giudicata come un tentativo di ridurre l’ostilità di molti governi e di gran parte dell’opinione pubblica sudamericana per la sua controversia con il Messico.
E’ comunque presumibile una reale tendenza della sua amministrazione a un maggior coinvolgimento, come dimostrano gli approcci con i più moderati Perù e Argentina e, per converso, il raffreddamento verso Cuba e gli accordi firmati da Obama. Questo può rappresentare un altro punto di rottura con la Russia, ancora al fianco del regime castrista, in analogia a quanto già visto per l’Iran. Il maggior alleato del regime venezuelano è la Cina, che sta estendendo la sua presenza in altri Paesi sudamericani, compreso il Messico, dove sta investendo proprio in quel settore automobilistico minacciato dalle politiche nazionaliste di Trump.
Proprio la Cina con la sua politica espansionistica sembrerebbe essere, insieme all’estremismo islamico, il principale antagonista per Trump, destinato a diventare il fulcro della sua politica estera. In questa luce possono essere visti, per esempio, gli approcci verso le Filippine i cui rapporti con gli Stati Uniti si sono raffreddati sotto la presidenza di Duterte. Date le iniziative estremamente dure di Duterte contro la criminalità nel suo Paese, questo riavvicinamento è stato letto dagli avversari di Trump come una entente cordiale tra due presidenti autoritari con tendenze dittatoriali. Rimane il fatto che durante gli ultimi tempi della presidenza di Obama, la presa degli Stati Uniti sui suoi tradizionali alleati è andata scemando, favorendo in tal modo la Cina. Trump sembra invece non particolarmente interessato al continente africano, ma dovrà occuparsene prima o poi, vista la forte penetrazione cinese in gran parte dell’Africa.
Se si volesse azzardare una sintesi della possibile politica estera di Trump, i suoi punti essenziali parrebbero essere i seguenti: aumento degli interventi nell’America Latina, considerata di nuovo il “cortile di casa” degli Stati Uniti; non alleanza, ma neutralità armata con la Russia, necessaria per la stabilizzazione del Medio Oriente e possibile fiancheggiatrice nel contrasto verso la Cina; “responsabilizzazione” dell’Europa e invito a collaborare con la Russia per eliminare le esistenti possibilità di conflitto e per fermare la crescente presenza cinese a livello economico; blocco delle mire espansionistiche della Cina che, come detto, non si fermano all’Asia.
Ho usato il termine azzardare perché l’imprevedibilità sembra la caratteristica di questo momento e non è di certo una prerogativa del solo Trump.