Gli Stati Uniti hanno collaborato con i sauditi nella creazione di al Qaeda per combattere l’Unione Sovietica in Afganistan la prima volta negli anni 80. Secondo l’ex ministro degli Esteri britannico Robin Cook, al Qaeda “era originariamente il nome di un data-base del governo Usa, con i nomi di migliaia di mujaheddin arruolati dalla Cia per combattere contro i sovietici in Afghanistan”. L’estremismo sunnita è stato utilizzato successivamente in Iraq per diminuire l’influenza sciita iraniana e in Siria per far cadere Assad e rompere così il pericoloso asse Iran-Siria-Hezbollah libanesi, lesivo per gli interessi statunitensi, israeliani e sauditi.



In entrambi i casi (Iraq e Siria) la strategia statunitense di utilizzare operazioni clandestine per rafforzare i gruppi estremisti sunniti, è iniziata nel 2007 (il piano è stato descritto lo stesso anno dal premio Pulitzer per il giornalismo Seymour M. Hersh sul New Yorker). 

L’adozione di tali pratiche di “reindirizzamento” della politica americana in Medio oriente sono state confermate pubblicamente anche da esponenti chiave del governo americano, come l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale gen. Michael Flynn in un’intervista all’Huffington Post nel 1992.



La prova più recente di questo modus operandi è la registrazione di un incontro avvenuto tra l’allora Segretario di Stato americano John Kerry e i membri dell’opposizione siriana presso la Missione olandese delle Nazioni Unite il 22 settembre 2016.

Barack Obama non solo ha spregiudicatamente aiutato l’Isis a proliferare in Iraq ed in Siria ma ha decuplicato questi aiuti con l’approssimarsi della fine del suo mandato presidenziale: il 10 dicembre scorso l’Isis ha ripreso l’antica cittadina di Palmira che era stata riconquistata a marzo. All’esercito iracheno il comando statunitense ha ordinato di non interferire e di lasciare un corridoio sicuro verso la Siria: circa la metà dei 9mila miliziani dell’Isis posti a difesa di Mosul ha avuto modo di abbandonare la città sotto assedio, utilizzando la via di fuga verso la Siria preparata ad hoc dalle truppe speciali Usa (Agenzia Anadolu).



Successivamente, a metà gennaio, l’Isis che a seguito dell’attacco delle forze filo-Usa del Syrian Democratic Forces (Sdf), doveva stare in difensiva per l’attacco a Mosul e a Raqqa, ha attaccato anche la località strategica al nord della Siria di Deir el Zor, il sito più importante controllato dall’esercito arabo siriano in Siria orientale. 

In tale località da più di due anni le forze siriane guidate dal generale Zahreddine resistono ai continui assalti delle milizie del califfato, mentre nella città 100mila persone stremate sopravvivono prive di acqua e di elettricità solo grazie ai rifornimenti aerei paracadutati dai russi. Da più di 20 giorni 5mila difensori, completamente circondati, contrastano 14mila uomini di Isis che attaccano continuamente giorno e notte. L’aviazione russa e siriana stanno bombardando le postazioni del califfato ma al momento la situazione resta assai precaria.

E’ da ricordare che in tale località per ben due volte l’aviazione Usa ha attaccato le postazioni governative. L’ultimo di questi attacchi è avvenuto a settembre sulla strategica altura del monte al Therdh. Questo attacco ha causato una falla nel sistema difensivo, non più colmata. 

Successivamente, nel mese di gennaio 2017, sono avvenuti ulteriori attacchi americani che hanno distrutto la centrale elettrica annessa al giacimento petrolifero di Omar, nei pressi di Deir el Zor. L’impianto era l’ultimo in grado di rifornire la città. Un attacco aereo dell’Us Air Force dello stesso tipo aveva poco prima distrutto tutti e tre i ponti in prossimità di Deir el Zor sull’Eufrate annichilendo così le residue attività commerciali. 

Questo tipo di azioni continuano correntemente. In questi giorni sono stati bombardati dall’aviazione americana i quattro ponti a nord di Raqqa, proprio quelli che il Syrian Democratic Forces (Sdf) dovrebbe attraversare per arrivare alla città. Anche la centrale elettrica di Aleppo è stata bombardata l’anno scorso dall’aviazione Usa. E l’interruzione dell’acqua potabile per Damasco è stata ripristinata solo da pochi giorni mentre permane l’assenza totale di acqua ad Aleppo per la chiusura dell’acquedotto da parte dell’Isis.

E’ chiaro che si tratta di attacchi coordinati che mirano alle infrastrutture vitali del paese. Con il perdurare di queste subdole strategie, l’esclusione degli Stati Uniti ai colloqui di Astana era inevitabile. Proprio come i russi prevedevano, i colloqui di Astana hanno evidenziato le divergenze di vedute tra i ribelli, sfociate in conflitti armati tra le diverse sigle nel governatorato di Idlib che rappresenta la maggiore roccaforte dell’opposizione armata. A seguito a tali scontri, le fazioni salafite più estreme che intendono continuare la guerra si sono riunite sotto la nuova sigla di Harakat Tahrir al-Sham (Hts), che non è nient’altro che il gruppo al Nusra “allargato”. Questa ormai netta separazione tra estremisti e moderati è proprio l’obiettivo a cui i russi tendevano per individuare le forze con cui trattare.

In altre località chiave del paese la situazione è generalmente stabilizzata, fatta eccezione degli scontri ad Hama con le formazioni non inserite nell’accordo di cessate il fuoco.

Intanto migliora giorno per giorno la situazione ad Aleppo, nonostante la gravissima carenza idrica mitigata in parte dai pozzi. Da segnalare la riapertura di ben 20 scuole nei quartieri ex ribelli di Aleppo est e l’importante iniziativa “riscaldiamo Aleppo” dei maristi blu che tende a fornire gas combustibile per il riscaldamento. 

Accanto a queste iniziative, per aumentare la cornice di sicurezza, e fugare possibili colpi di coda degli estremisti, l’esercito siriano sta aumentando la zona sicura intorno ad Aleppo allargando il territorio in suo possesso. In questo senso, nelle ultime due settimane, le forze Tigre del gen. Hassan hanno sottratto ben 250 chilometri quadrati di territorio all’Isis ed ora muovono verso il triangolo Al bab-Qabasin-Bazah. 

Queste in breve le difficoltà e le contraddizioni che la Siria si trova ancora ad affrontare.  

E’ accaduto però qualcosa che rischia di vanificare tutti gli sforzi fatti ad Astana per convincere l’opposizione armata che non vi sia altra soluzione oltre quella politica. Inaspettatamente, mercoledì 25 gennaio, il presidente Trump — che aveva promesso una inversione a 180 gradi della politica precedentemente adottata da Obama — ha riproposto il vecchio piano di spartizione della Siria tanto caro al suo predecessore, a Erdogan e ai sauditi. Questo piano prevede la divisione della Siria per zone di influenza e se realizzata distruggerebbe l’unità del popolo e del territorio siriano. 

Per superare il possibile veto della Russia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il vecchio progetto è con una variante. Trump cercherà di “allettare” Putin offrendogli una maggiore zona di influenza che comprende tutta la Siria e l’Iraq ed una sorta di protettorato diretto che va oltre la zona di Latakia. Precisamente, nella nuova spartizione alla Russia verrebbe assegnata tutta la parte costiera fino ad Homs, alla Turchia la parte a nord di Aleppo (dal confine turco alla città di Al-Bab, una distanza di 75 miglia), alla Giordania e ad Israele la parte vicino al suo confine (dal Golan a Daraa e in Suweida), agli Stati Uniti la parte conquistata dai curdi (da Hasaka all’Eufrate). 

E’ evidente che tale ipotesi sarebbe disastrosa e vanificherebbe ogni sforzo per una pace equa e giusta: vedremo prossimamente, quando questa sciagurata proposta sarà meglio dettagliata, se prevarrà o meno.