NEW YORK — La prima volta di Trump. Tecnicamente non è uno State of the Union Address (che richiede l’essere stato in carica per un anno almeno), è un Congress Address, ma di fatto lo è, essendo la prima volta dopo il discorso di inaugurazione che il presidente parla al Paese. I media, più volte definiti dalla nuova amministrazione “il partito di opposizione”, fibrillano. Piove forte a Washington DC, vedremo se arriveranno anche tuoni e fulmini. Nell’attesa, tra una pubblicità e l’altra, con quel fare cinematografico che hanno tutte le forme di comunicazione in America, Cnn si presenta come “The most trusted news”, e anche il New York Times ha comprato spazi pubblicitari per dirci che “la verità è difficile da trovare”, ed è per questo che il New York Times esiste.



Trump si troverà a parlare a un Congresso diviso, a partiti divisi, a un popolo americano diviso, a milioni di coscienze divise almeno un po’ tra desiderio di cambiamento e paura di un nuovo che potrebbe snaturare quello che l’America è sempre stata.

Donald Trump si presenta tra gli applausi scroscianti dei repubblicani e quelli di circostanza di alcuni democratici. La solita, belligerante, cravatta rossa ha lasciato il posto a un più rassicurante capo d’abbigliamento blu e bianco. Anche questo è un segnale, un “prima della parola”. Il presidente attacca quello che a mio avviso è stato il suo migliore discorso di sempre. Francamente ho sempre dubitato che sapesse parlare. Se vogliamo afferrare la spina dorsale di tutto il messaggio di questa sera dobbiamo partire dalla fine: “Il mio compito non è quello di rappresentare il mondo, il mio compito è quello di rappresentare gli Stati Uniti d’America”. 



Con inattesa lucidità, ma senza perdere l’energico piglio che l’ha sempre contraddistinto, Trump ha navigato attraverso tutto il panorama delle sue promesse elettorali. Ne è venuto fuori un messaggio di “unità e forza”, un inno all’ottimismo fondato sulla vitalità dell’American spirit. Questa volta — almeno per questa volta! — il neo-presidente ha lanciato ponti verso tutto il Paese, e qualche ponticello verso il resto del mondo, Israele, Nato e paesi musulmani inclusi. Perché il mondo — ci dice Trump — ha bisogno di un’America forte. Per questo, sempre e sempre di più, “America first!“. Dall’immigrazione alle tasse, dal “repeal and replace” dell’Obamacare alla fiscalità, dall’istruzione al grande programma di ricostruzione nazionale (in stile Eisenhower), fino al rafforzamento del sistema militare, tutto per spezzare il ciclo di povertà e violenza che ci affligge, rilanciare la vita quotidiana dell’American people e ridarci un ruolo guida nel mondo. 



Tra un’infinità di applausi e manifestazioni di affetto e gratitudine verso gli uomini e le donne in uniforme, veterani, eroi nazionali e il defunto Justice Scalia, Trump ha cercato di dare un senso pratico e operativo alle tante promesse fatte con una grande differenza rispetto al passato anche recente: un tentativo di presentare le sue idee in maniera ragionevole. Come dire “voglio cambiare (quasi) tutto”, ma facendo capire (senza dirlo) di voler salvaguardare l’identità del Paese e quel che di buono può essere stato già fatto.

Wall Street di questi tempi sembra gradire le mosse dell’amministrazione, ma occorrerà che l’economia prenda davvero il volo se si intende tagliar tasse, mantenere e anzi espandere i benefici offerti dall’Obamacare, sostenere la libertà di educazione, aprire l’immenso cantiere delle opere pubbliche e incrementare le spese militari. Ce la farà Donald?

Sicuramente questa notte un po’ tutti dormiranno sonni più tranquilli: milioni di immigrati illegali che vivono qui la loro vita sofferta e laboriosa, i tanti la cui assistenza sanitaria è appesa a un filo, i troppi diseredati che languiscono nella pancia del Paese, i paladini del liberalismo economico e fiscale, i capi militari, le minoranze, i repubblicani che temevano di aver partorito un mostro e i democratici che non hanno validi elementi per stracciarsi le vesti — anche se non lo ammetteranno mai.

Quello che dormirà meglio di tutti sarà certamente Trump, che inaspettatamente è stato capace in neanche un’ora di spazzar via ogni senso di caos che aveva accompagnato questo suo primo mese di presidenza. Difficile da capire questo Paese, anche per gli americani.

Forse è per questo che anche Donald Trump, come tutti i presidenti che l’hanno preceduto, si è sentito in dovere di concludere il suo address con la solita invocazione: “God Bless America“. Che è anche il titolo del mio ultimo libro. Devo ricordarmi di mandargliene una copia.