La Scozia vuole un nuovo referendum per staccarsi da Londra: lo ha detto ieri in conferenza stampa la prima ministra Nicola Sturgeon. L’iter, ha dichiarato la Sturgeon, sarà avviato tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, dunque quando i termini della Brexit saranno chiari. Londra, però, non ci sta e il primo ministro Theresa May ha annunciato il no del parlamento di Londra. “Un altro referendum sarebbe divisivo e causerebbe un’enorme incertezza economica”, ha affermato il governo in un comunicato.
Si complica dunque la partita politica interna al Regno Unito, nel mezzo della Brexit, in un gioco di reciproche convenienze e spinte centrifughe difficili (ma non impossibili) da decifrare. Il punto di Annalisa Ciampi, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Verona.
La Scozia vuole l’indipendenza da Londra per rimanere nell’Ue. Come commenta?
Già all’indomani dell’esito del referendum sulla Brexit (23 giugno 2016, ndr), referendum nel quale la Scozia al pari dell’Irlanda del Nord aveva espresso una maggioranza favorevole al permanere del Regno Unito nella Ue, leader politici scozzesi avevano paventato l’ipotesi di un nuovo referendum in Scozia che potesse eventualmente smentire quello del 2014.
Quello che aveva respinto con un margine di ben 10 punti l’uscita della Scozia dal Regno Unito.
Esattamente. Ricordo anche le iniziative diplomatiche di alcuni esponenti politici di porsi come interlocutori autonomi delle istituzioni europee: iniziative di scarso peso giuridico anche se non prive di peso simbolico, come la standing ovation del Parlamento europeo di fronte al discorso di Alyn Smith, membro del Parlamento scozzese, il 28 giugno 2016, o addirittura politico: penso alla nomina, sempre da parte del Parlamento europeo, dell’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, notoriamente favorevole alla membership della Scozia nell’Ue, per coordinare il ruolo del Parlamento europeo, di cui è richiesto il consenso all’accordo Ue-Regno Unito sulla Brexit.
Ha detto “iniziative di scarso peso giuridico”. Perché?
Per l’unicità e l’esclusività, a tutt’oggi, della soggettività dello Stato britannico sul piano internazionale, ivi incluso quello europeo.
Theresa May non intende autorizzare la consultazione in Scozia: con quale fondamento?
E’ una questione tutta interna al Regno Unito. La richiesta della premier scozzese deve prima essere approvata dal parlamento di Edimburgo, e il partito laburista scozzese ha già annunciato la propria opposizione. Una decisione è attesa verosimilmente già la prossima settimana.
Westminster ed Edimburgo: come andrà a finire tra i due parlamenti?
Le dichiarazioni del portavoce di Theresa May sono naturalmente contrarie al via libera: anche se la consultazione dovesse svolgersi a primavera del 2019 —dunque sostanzialmente in dirittura d’arrivo rispetto ai negoziati di cui ad ore si attende l’avvio formale, ai sensi dell’articolo 50 del Tue —, non vi è dubbio che la prospettiva — concreta — dell’uscita della Scozia dal Regno Unito indebolirebbe il peso negoziale di quest’ultimo vis à vis i suoi interlocutori europei. Ma la decisione su un nuovo referendum scozzese dipende dalla decisione — democratica — del parlamento di Westminster. Qui Jeremy Corbyn, leader del partito laburista britannico, ha dichiarato che non si opporrà. Un esito favorevole dunque in questo momento non può essere escluso.
La Sturgeon sfida Londra dicendo che la situazione politica è cambiata. Però verrebbe da dire che se non si ripete il referendum sulla Brexit, come qualcuno oggi vorrebbe fare, non si dovrebbe ripetere nemmeno quello scozzese.
Lo scenario è effettivamente mutato: aver votato per rimanere nel Regno Unito, membro della Ue, non è la stessa cosa che votare a Brexit già avvenuta. Qualche dubbio lo avrei semmai sui tempi del nuovo referendum: la Sturgeon lo vuole quando i negoziati saranno abbastanza avanzati da conoscere i termini dell’uscita del Regno Unito dalla Ue, ma prima che sia “troppo tardi”. Troppo tardi per cosa? Un esito favorevole alla separazione della Scozia dal Regno Unito prima della conclusione formale dei negoziati mi pare un non senso dal punto di vista della chiarezza della scelta che gli scozzesi sarebbero chiamati ad esprimere. Non ne vedo altro significato che quello di espediente politico per indebolire la posizione del governo britannico, senza una sostanziale contropartita in termini di benefici per la Scozia.
In che modo, secondo lei, le spinte centrifughe presenti nell’Ue possono cambiare la partita interna al Regno Unito?
Il problema del ruolo delle autonomie locali, più o meno accentuate, esiste ed è reale: dalle pretese dei valloni in Belgio, che hanno subordinato la ratifica belga del Ceta (Accordo economico e commerciale globale fra Ue e Canada, ndr) ad una richiesta di parere alla Corte di giustizia europea sulla sua conformità ai trattati europei, oltre a condizionarne la provvisoria entrata in vigore in attesa di ratifica; alle richieste di indipendenza della Catalogna dalla Spagna, passando per l’Irlanda del Nord — l’altra spina nel fianco del governo britannico nel suo travagliato cammino verso la Brexit —, oltre che per la Scozia.
C’è una crisi di politica e c’è una crisi di Stati, con i loro establishment tradizionali.
Sì; ma c’è altrettanto netta, e forse più difficile da curare di quelle nazionali, una crisi nelle organizzazioni internazionali ed europee in particolare. E i sussulti scozzesi, come quelli dei valloni e altrove, al di là del merito delle questioni giuridiche e politiche, sono una delle manifestazioni sempre più numerose ed evidenti di questo malessere.
(Federico Ferraù)